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Etica (II)

Creato il 03 agosto 2011 da Alby87

Riprendiamo qui il discorso sull’etica precedentemente interrotto. Si era partiti dalle riflessioni ahimè assai poco solide di Peter Singer, e si prometteva un modello alternativo.

Se si vuole pensare di discutere dell’etica, dunque, sarà necessario fare prima alcune importanti dichiarazioni di principio.

Il primo punto che bisogna affrontare è questo: l’etica è un sistema normativo.

Un sistema normativo equivale per definizione ad un insieme di regole, o per lo meno di direttive generali di comportamento. È un imperativo, rappresenta un dovere.

Il che significa che è fondamentale distinguerlo da tutte quelle attività umane che non sono frutto di dovere, ma di semplice inclinazione personale (compassione, carità, amore, eccetera. Posso anche essere privo di tutte queste belle doti, ma questo nulla toglie o aggiunge ai miei doveri etici).

Scriveva Kant:

Essere benefici, quando si può, è dovere, e in più vi sono alcune anime così propense alla partecipazione che, anche senza un ulteriore motivo derivante dalla vanità o dall’interesse, provano un’intima soddisfazione nel diffondere gioia intorno a sé, e sanno godere dell’altrui contentezza, se questa è opera loro. Ma affermo che in tal caso una simile azione, per quanto conforme al dovere, per quanto amabile possa essere, non ha alcun vero valore morale […]; infatti la massima manca del contenuto morale, e cioè del compiere azioni non per inclinazione, ma per dovere.

(Fondazione alla metafisica dei costumi)

Kant si spingeva addirittura a dichiarare che il dovere morale si esprime come un imperativo categorico, ovvero che ha il proprio fine solo in sé stesso.

Ma questo è un errore, ed è buffo vedere come Kant, di solito chiaro e oserei dire scientifico, nell’affrontare questo argomento diventi incredibilmente fumoso, poco chiaro nelle definizioni come negli scopi.  Il secondo punto fondamentale è infatti che l’etica non è fine in sé, né si tratta di una specie di principio superiore cui l’agire umano deve ispirarsi, bensì essa è finalizzata. Non è questo il posto per affrontare una critica completa della teoria morale kantiana. Ci si riallaccerà dunque a quelle schopenhaueriane e poi nietzscheane, dalle quali mi sento di riprendere almeno un principio: la volontà è sempre volontà di qualcosa. Per Kant l’imperativo morale è fine a se stesso, e proprio per questo rappresenta l’assoluta libertà legislatrice dell’essere umano. Ma un atto volitivo fine a se stesso in realtà è privo di significato, ogni atto volitivo è mirato, vuole un certo qualcosa; lo stesso essere vivente, in realtà, è costruito seguendo una teleonomia, ha funzioni e scopi. Di conseguenza, anche la legge morale, che si impone sugli atti volitivi, esiste con determinati scopi. La distinzione kantiana in imperativi categorici, fini in sé, ed ipotetici, che dipendono da un altro fine, è a mio avviso del tutto erronea e speciosa: esistono unicamente imperativi ipotetici.

Trovo quindi che la concezione kantiana della norma morale come di un assoluto dato a priori sia un controsenso. Essendo essa prescrittiva, la norma è necessariamente finalizzata a un obbiettivo. Era più nel giusto il buon Aristotele, quando scriveva:

Si ammette generalmente che ogni tecnica praticata metodicamente, e, ugualmente, ogni azione realizzata in base a una scelta, mirino ad un bene: perciò a ragione si è affermato che il bene è “ciò cui ogni cosa tende”

[…]

Bisogna dire, dunque, che ogni virtù ha come effetto, su ciò di cui è virtù, di metterlo in buono stato e di permettergli di compiere bene la sua funzione specifica: per esempio, la virtù dell’occhio rende valenti l’occhio e la sua funzione specifica: noi, infatti, vediamo bene per la virtù dell’occhio. Similmente la virtù del cavallo rende il cavallo [20] di valore e buono per la corsa, per portare il suo cavaliere e per resistere ai nemici. Se dunque questo vale per tutti i casi, anche la virtù dell’uomo deve essere quella disposizione per cui l’uomo diventa buono e per cui compie bene la sua funzione.

(Etica Nicomachea)

È, direi, del tutto privo di significato voler stabilire a priori tramite il discorso razionale quali siano i fini etici, e fare di questi fini il discorso dell’etica. Semmai i fini della morale sono “sentiti”, “avvertiti” a priori, immediati. Vogliamo avere una vita bella e soddisfacente, tutti quanti, e le nostre azioni sono finalizzate a questo, è il fine condiviso degli uomini.

 

Ma da dove emerge un senso di dovere, in ciò? Singer, per esempio, fa direttamente il salto logico: io vorrei avere una vita soddisfacente e piacevole, per cui è etico che io faccia di tutto perché qualunque essere senziente abbia una vita bella e soddisfacente (senza porsi fra l’altro il problema se sia possibile che tutti abbiano una vita bella e soddisfacente, se la morte sia una questione di rilievo per quanto riguarda tutto ciò, se la generalizzazione insomma sia legittima). Si dice utilitarista, ma in realtà svolgere un salto di questo tipo fa assolutamente di lui un kantiano, che pone al centro la massima, e non il fine e l’utile.

Fra il suo fine, preso con buona approssimazione per universalmente applicabile ad ogni singolo individuo, ovvero la felicità, e la norma formulata c’è un distacco inimmaginabile. Addirittura, potrebbero essere opposti; sacrificarsi per il prossimo può facilmente diminuire la nostra felicità, se ciò non è stato fatto istintivamente e per naturale generosità. Ma se è stato fatto per inclinazione naturale, che bisogno c’era di una massima da seguire che lo imponesse?

Una massima che ci imponga un fine morale è già inesatta. Il fine morale non può essere ricavato razionalmente, non è soggetto a scelte logiche, ma è una pulsione. Il discorso etico non è applicabile ai fini, piuttosto deve darli per scontati, e discutere di altro, ovvero quale sia il mezzo migliore per ottenere questi determinati fini. Sempre Aristotele scriveva:

Deliberiamo non sui fini, ma sui mezzi per raggiungerli. Infatti, un medico non delibera se debba guarire, né un oratore se debba persuadere, né un politico se debba stabilire un buon governo, né alcun altro delibera [15] sul fine. Ma, una volta posto il fine, esaminano in che modo e con quali mezzi questo potrà essere raggiunto: e quando il fine può manifestamente essere raggiunto con più mezzi, esaminano con quale sarà raggiunto nella maniera più facile e più bella; […]

Sembra, dunque, come si è detto, che l’uomo sia principio delle proprie azioni: la deliberazione riguarda ciò che può essere fatto da colui stesso che delibera, e le azioni hanno come fine qualcosa di diverso da loro stesse. Dunque, l’oggetto della deliberazione non può essere il fine bensì i mezzi.

L’etica deve dunque occuparsi dei mezzi con cui si ottengono fini desiderabili. Il desiderabile è ovviamente in larga misura soggettivo, quindi può essere, e difatti è, un ostacolo al raggiungimento di un’etica condivisa. Ma se non vi fosse questa differenza, in effetti, non ci sarebbe ragione dell’esistenza di una disciplina che esamini quale sia il modo migliore per trovare compromessi fra i vari desideri e le varie pulsioni. Un uomo che sia posto nell’universo solo con se stesso a guisa di un Dio, non avrebbe alcuna necessità di porsi problemi etici. Il problema sorge dalla necessità di confrontarsi con un mondo esterno di volontà in lotta. È esattamente da questo conflitto, da questa dimensione relazionale, che si genera il dibattito etico. L’etica è dunque solo ed esclusivamente una delle dimensioni della socialità; per la precisione quella che riguarda il senso dei doveri reciproci da parte dei membri della comunità.

 

Ne consegue che l’etica propriamente intesa è in realtà qualcosa di estremamente simile alla legge, più che all’elemosina o alla solidarietà. Addirittura si può dire che etica e legalità sono sostanzialmente dei sinonimi, e si differenziano soltanto in virtù della forza con cui i doveri che esse esprimono sono imposti.

Ciò che viene chiamato comunemente etica, invece, è piuttosto un miscuglio di comportamenti che hanno tre differenti origini:

1)   L’origine biologica

I comportamenti altruisti sono in gran parte codificati nei nostri geni accanto a quelli egoistici. Quello fra egoismo e altruismo, per la genetica, è un semplice equilibrio evolutivo (si veda “Il gene egoista”, di Richard Dawkins). Tutti noi abbiamo delle inclinazioni spontanee verso comportamenti altruistici, e tendiamo ad apprezzare quando gli altri si comportano in maniera altruistica verso di noi. Questo è uno dei motivi per cui il comportamento altruistico è socialmente più apprezzato e dunque ritenuto maggiormente “etico”. Ma non è, ricordiamolo, fine in sé.

2)   L’origine psicologica

Quello che Freud chiamava il superio. Ha radice in ciò che ci è stato culturalmente tramandato, insegnato magari dai nostri genitori o dai nostri pari. Ovviamente, anche questo aspetto ha radici di tipo relazionale: l’etica che ci viene tramandata è l’equilibrio sociale che è stato raggiunto dai nostri avi.

3)   L’origine sociale

Quella che noi definiamo effettivamente l’unica, irrinunciabile etica razionale. Il suo fine è esclusivamente uno: costruire una società stabile. Ogni agente morale contribuisce esclusivamente a questo scopo. Perfino il criminale è tale solo e soltanto in virtù del fatto che vive in una società etica e legale, altrimenti finirebbe con l’essere anch’egli sopraffatto.

 

Spero che nessuno sia sorpreso nello scoprire che alla fine di questa nostra disamina, il modello della giustizia e dell’etica che emerge è una forma contrattualistica molto simile al modello di Rawls. Solo che ora è giustificato fattualmente in virtù di determinati fini perseguiti.

Abbiamo lì per lì eliminato alcune caratteristiche che vengono considerate spesso fondamentali per la norma morale, come la sua universalità, ma li troviamo riscoperti nella forma di un equilibrio di forze sociali.

Ovviamente sarebbe da dedicare maggior tempo all’approfondimento del contrattualismo rawlsiano, affrontando alcune delle critiche ad esso rivolte. Ma qui si può accennare al fatto che in effetti queste non sono autentiche critiche, in quanto si basano su presunte discordanze fra contrattualismo e morale comune. Ma non sono ammesse discordanze su questo punto, e se ce ne sono, è la morale comune a sbagliare. Una teoria morale deve render conto di se stessa solo ai suoi fini, non alla morale comune.

Se davvero c’è in questa teoria qualcosa che non ci piace, ciò si può giustificare in un solo modo: evidentemente i nostri fini non sono adeguatamente tutelati da essa. Ma detti fini sono solo nostri, e solo come tali possono avere un ruolo negli equilibri sociali, e solo come tali possiamo portarli al suo interno. Nessuno può proclamare la propria superiorità morale sulla base dei propri fini, “maggiormente morali”. I fini personali sono tutti indifferenti, e solo nella dimensione dialettica del sociale che essi diventano morali o immorali, in quanto ammissibili dal contratto sociale o non ammissibili da esso.

Vi sono dunque tre possibili modi per tutelare i propri fini, che corrispondono ad altrettanto atteggiamenti nei confronti del problema dell’etica:

-   Quello politico

Consiste nel portare i propri interessi ei propri fini nell’arena etica, tentando di modificare il contratto in modo che esso diventi un compromesso migliore per tutti di quanto non sia ora.

-   Quello del suddito

Consiste semplicemente nel sottomettersi al contratto sociale così com’è.

-   Quello criminale

Consiste nel rifiutare del tutto il contratto mediante il rifiuto delle sue condizioni fondamentali.

Come si è detto, il contratto è per definizione la condizione migliore per tutti che si sia riusciti finora a combinare. Questo non significa che sia perfetto, ma comunque esso è necessario. Lo stesso criminale si troverebbe male in una società senza alcun tipo di contratto, dunque il suo agire è del tutto “immorale”, ma non in nome di un principio superiore, bensì in virtù della sua radicale inconciliabilità sociale.

Possiamo dunque arrivare a definire l’etica in modo finalmente preciso:

L’etica è un sistema normativo, e in qualche misura coercitivo, tramite il quale i membri di una comunità tendono al raggiungimento del miglior equilibrio possibile riguardo al soddisfacimento dei propri obbiettivi personali.

Rimando ulteriori approfondimenti in un eventuale prossimo intervento.

 

Ossequi



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