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Etica pubblica e integralismo

Creato il 19 aprile 2011 da Albertocapece

Etica pubblica e integralismoAnna Lombroso per il Simplicissimus

Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni?”. Per l’omelia della domenica delle Palme dell’Arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, ha adottato un approccio “temporale”, parlando di “giorni strani, i più dotti potrebbero dirli giorni paradossali”. “Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni? E ancora: perchè tanti vivono arricchendosi sulle spalle dei paesi poveri, ma poi si rifiutano di accogliere coloro che fuggono dalla miseria e vengono da noi chiedendo di condividere un benessere costruito proprio sulla loro povertà?”
Secondo l’Arcivescovo, la vera potenza sta nell’umiltà, nel dono di sè, nello spirito di servizio, nella disponibilità piena a venerare la dignità di ogni nostro fratello e sorella in ogni età e condizione di vita”.
Giorno orsono parlando di un profeta di ribellione a mio avviso poco credibile, ho discusso con alcuni amici su quello che considera un carattere irrinunciabile per chi voglia guidare una rivolta morale, l’assoluta inattaccabile integrità e i conseguenti comportamenti ineccepibili.
Io vorrei che la chiesa, le chiese non si vedessero, esercitassero autorità morale nella comunità dei credenti, promuovendo la loro autorevolezza e la loro forza sui terreni della solidarietà, del bene, della compassione. Ma non essendo illuminata dalla loro luce, vorrei non sentirne l’aggressiva invadenza e non subirne neppure indirettamente l’influenza.
Posso giudicare positivo un atto di “fede” come quello espresso da Tettamanzi perché mi auguro ispiri credenti-elettori a assumere posizioni più umane e quindi più civili. Ma sono poco disposta a dare fiducia a espressioni così alte da parte di una organizzazione connotata da uno spregiudicato uso del potere temporale e dalla facoltà esercitata con arrogante autoreferenzialità di entrare nelle esistenze dei laici per condizionarle.
Viviamo tempi confusi, anche su questo fronte, che qualcuno ha chiamato post-secolari. Da una parte si materializza una generalizzata richiesta di etica pubblica in una società che ha perso ogni orientamento e che è stata percorsa da una mutazione profonda. Dall’altra l’assunto alimentato in molto credenti che l’appartenenza a una chiesa offra le indicazioni giusta a guidare l’etica pubblica sulla base della sua dottrina tradizionale che definirebbe ciò che è “naturale”, “umano” e “razionale”.
In questo caso nemmeno mi pongo l’interrogativo se la chiesa cattolica possieda l’autorità e la credibilità per governare anime e menti verso il bene. Semplicemente mi ribello perché in modo esplicito mi viene negato, da essa e dalla comunità di credenti o affiliati o interessati a vario titolo, il riconoscimento della piena legittimità della mia visione etica, facendomi temere l’alterazione delle regole stesse della vita democratica.
In una democrazia, peraltro già minacciata se non compromessa, i contenuti e le “verità” religiose non possono in alcun modo sostituirsi a regole autodeterminate dai cittadini e alle leggi, fungendo da criteri di orientamento per i processi politici deliberativi che conducono a norme vincolanti per tutti, laici o fedeli.
È inaccettabile e illegittimo che verità religiose vogliano rivendicare valore civile e scientifico entrando in competizione con principi laici.
È vero che viviamo un tragico oscurantismo per quanto riguarda la circolazione di ideali valori e che stiamo accettando con stolida tolleranza la caduta precipitosa di tutti i livelli di sopportazione dell’illegalità, tanto che si è creato un sostegno omertoso e impaurito a comportamenti illeciti e prevaricatori.
Ma non dobbiamo cedere nemmeno in nome di alleanze temporanee con antichi antagonisti della libertà nelle differenze, alla “traduzione” di convinzioni religiose in codici secolari: si è sempre verificato che i discorsi religiosi laicamente tradotti pretendano di non essere negoziabili, dimostrando un intento repressivo delle coscienze e compromettendo la funzionalità della vita democratica. Che deve essere innervata da un principio fondamentale e irrinunciabile: la discriminante non è e non deve essere tra chi crede o non crede, ma tra chi riconosce e garantisce la pluralità delle visioni e degli stili di vita, proprio come nell’articolo 3 della Costituzione, e che dichiara con parole ed atti “intrattabili” i propri valori e negoziabili fino ad essere negati quelli altrui.
Con buona pace di chi come Habermas (l’età fa brutti scherzi) reclama una reciproca traduzione comprensione dei linguaggi: religioso e laico/secolare in nome di una grande intesa pacificatrice, anche in questo deficit di moralità, credo sia da respingere con forza la rivendicazione della Chiesa del monopolio dell’etica, un’atica condizionata da una visione inaccettabile della normalità e della naturalità, intese come manifestazioni di convinzioni che ben poco hanno oggi di “civile”, interpretate e testimoniate da peccatori più inclini alla spericolata dissipazione secolare che all’espiazione e alla salvezza ultraterrena.


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