Etiopia: un viaggio nel cuore dell’uomo

Creato il 26 marzo 2012 da Cafeafrica @cafeafrica_blog
Ecco l’ultimo articolo di Alessandra Laricchia con foto di Andrea Mazzella pubblicato su Il Cerchio n°81

Sta calando la notte alla missione di Emdibir e le iene iniziano con il loro ghigno minaccioso a sovrastare la voce di Paolo, un giovane italiano che pochi anni fa ha deciso di lasciare la casa natale per dedicarsi alle attività della diocesi della Chiesa cattolica in questo angolo di Etiopia, al sud di Addis Abeba. Davanti ad una mappa mi perdo dietro le sue indicazioni delle tante scuole, ambulatori e strutture che la Chiesa gestisce. “Qui è necessario considerare che le distanze vengono percorse a piedi o al massimo col mulo. È per questo che siamo costretti a realizzare tante scuole ed ambulatori, per riuscire ad assistere concretamente gli abitanti di ogni villaggio” – mi spiega prendendo in braccio una dolcissima bambina dalla pelle ambrata, la seconda delle sue figlie nate dal matrimonio con una bella ragazza proveniente da una regione del nord del Paese.

La generosità non manca e si riescono a finanziare numerosi progetti di costruzione di ospedali e laboratori formativi, tuttavia l’ostacolo principale è la possibilità di assicurare sufficienti risorse umane qualificate sul territorio. I dottori, gli insegnanti, gli operai specializz
ati sono in generale scarsi in Etiopia, che vede un altissimo tasso di fuga di cervelli – diaspora -, ancor più se li si richiede a chilometri dalla capitale. La Missione di Emdibir ha perciò lanciato il programma di formazione per gli studenti più meritevoli, a cui si finanziano gli studi nelle migliori scuole della capitale a condizione di rientrare nelle strutture della Missione al termine del percorso formativo per dedicarsi all’insegnamento delle attività apprese in città. Addis – come la chiamano i locali – rappresenta il centro ove chiunque anela a trasferirsi, nonostante onestamente sia una delle città più brutte in terra africana. Con le sue infinite baracche di lamiera immerse nel lerciume, la città è un eldorado che promette stipendi e possibilità ben diverse da quelle che si prospettano ad un giovane in provincia che continuerà certamente a vivere in capanne di fango senza elettricità e con l’acqua da raccogliere a ore di cammino.

“È proprio l’acqua il punto su cui tutto fonda.” – afferma Abba Teshome, un sacerdote nato in un bel tucul – capanna tradizionale – a pochi passi dalla missione. Parla in un perfetto italiano appreso a Roma durante i suoi anni di studi teologici. È pragmatico anche quando gli chiedo se sia giusto gestire unilateralmente l’acqua del Nilo Azzurro. Lo sfruttamento del Nilo è, infatti, motivo di crescente tensione tra i Paesi bagnati dalle sue acque. Gli Stati della fonte, l’Etiopia in particolare, ne reclamano un utilizzo maggiore, mentre Il Cairo e Khartoum si appellano ad un trattato del ’59 che garantisce loro un diritto quasi esclusivo sulle acque del fiume. Ogni tentativo di accordo è andato a vuoto e il progetto di dighe annunciato dall’Etiopia potrebbe chiudere i rubinetti per gli Stati a valle. Ad Abba Teshome non interessa la querelle politica. “Portare un pozzo vicino ad un villaggio significa reale progresso. Quegli abitanti non si ammaleranno più e potranno quindi studiare e inserirsi a pieno titolo nel mondo lavorativo, facendo progredire così l’intero Paese”. In effetti la prima causa di ricovero e di malattia in quell’area è il tifo, una malattia strettamente connessa con la salubrità delle acque. E’ il dato che mi mostrano nella vicina missione di Zizenchu, poco lontana da Emdibir in termini di chilometri, ma quasi irraggiungibile per le condizioni della pista fangosa che percorriamo con enorme difficoltà. Quando arriviamo in questa piccola località a quota tremila, quattro minute suore provenienti dall’India – per la precisione dal Kerala – ci accolgono con la gioia di chi, vivendo in stato di assoluto isolamento, è pieno di curiosità e domande su quanto stia accadendo nel resto del mondo. Ci mostrano la scuola, l’ambulatorio, la piccola fattoria e la scuola di cucito che hanno allestito per le donne del villaggio con vecchie macchine per realizzare le divise dei bambini e piccoli lavori di cucito da poter vendere al mercato. “Il problema – mi spiega la madre superiora – è che al momento ne funziona solo una e manca la possibilità di riparare le altre, perché nessun tecnico viene fin quassù”. Il problema dell’assenza di personale locale con competenze professionali si ripresenta e non solo per il cucito. “Quando riusciamo a ottenere la presenza di un dottore nel nostro ambulatorio si creano file di ore, se non di giorni, per garantirsi una visita. Accorrono a piedi persino da villaggi molto lontani.” Per le suore ogni giorno è una battaglia, ma loro combattono con forza e determinatezza. Non di rado capita che le religiose debbano affrontare in piena notte pericolosi trasporti d’urgenza per l’ospedale giù a valle, affrontando la pista sconnessa e scivolosa nel buio totale. “In quelle situazioni a guidarti è solo l’obiettivo di salvare una vita umana che ti si sta spezzando davanti agli occhi” – mi racconta la madre superiora -. Ci salutiamo con le quattro indomite suore, che ricordano tanto Madre Teresa, con la consapevolezza di avere incontrato persone fuori dal comune, capaci di donare la loro stessa vita per il bene di chi soffre.

Mappa delle strutture afferenti alla diocesi di Emdibir.
Autore: Andrea Mazzella

Una nuovissima striscia dritta di cemento a doppia corsia collega più di cento chilometri a sud di Addis Abeba. “Ce l’hanno regalata i Cinesi” – mi racconta l’autista mentre sfrecciamo a velocità impensabili sulle piste percorse nei giorni precedenti -. Durante il tragitto attraversiamo un tratto di nebbia fitta e maleodorante “E’ il cementificio cinese” – indica l’autista con sguardo ironico -. In Etiopia negli ultimi anni ci sono, infatti, numerosi Paesi stranieri che cercano di concludere affari, ma è soprattutto la Cina che riesce a penetrare, offrendo infrastrutture e persino formazione – nel 2009 è stato inaugurato il Politecnico edile etio-cinese che, interamente finanziato dal Governo cinese, offre una formazione ingegneristica rigorosamente in lingua mandarina -. In questo modo il Dragone sta barattando la possibilità di impiantare fabbriche ed entrare nei mercati, riuscendo a impadronirsi delle telecomunicazioni e delle costruzioni. Anche la lamiera, il più comune ed economico materiale costruttivo è ormai in mano ai Cinesi. E gli Etiopi sono entusiasti di vedere finalmente anche nel loro Paese tracce di progresso. La faccia scura di questo neocolonialismo si mostra quando vediamo in tutto lo stato scheletri di edifici mai completati a causa delle speculazioni sul prezzo del cemento o strade di pochi anni che si sbriciolano al contatto con i pneumatici. “Certo queste strade non sono come quelle di Mussoloni!” – esclama l’autista – “a nord c’è ancora completamente integra e funzionante una galleria costruita dagli Italiani ove c’è inciso un fascio”.

In realtà echi d’Italia arrivano e si trovano nel consumo comune di spaghetti, nelle parola macchina, balilla per il biliardo, caramella,  in qualche costruzione che resiste, ma sono come sfumature leggere e fumettistiche di una presenza che in fondo è stata odiata, così come ogni ingerenza straniera in questo Paese così fiero e così unico nel contesto africano. Del resto questa è la terra dove pare si custodisca l’Arca dell’Alleanza e dove le guide ufficiali di Lalibela raccontano con convinzione che le dieci chiese monolitiche sono state costruite dagli angeli in una notte. E non sono temi sui quali stare a discutere o scherzare! Altrimenti non si spiegherebbe come un uomo, il custode dell’Arca, sia disposto a passare la sua intera vita nella cella sacra di Axum dalla quale non può in alcun caso uscire, nemmeno da morto, per mantenere il segreto. Ma a parte le perplessità che possono colpire noi Occidentali, l’Etiopia è un luogo di fede profonda, quella dei Copti. Più che altrove è possibile osservare e divenire parte di un sentimento religioso vivo e presente, che entra nella vita e nelle menti dei credenti e ne permea le sagome di uomini donne e bambini sempre ammantati di bianco. È una fede che porta i vecchi provati e ammalati ad affrontare insidiose scale per raggiungere il tempio e affidare le loro vite all’unica vera cura alla quale possano consegnarsi. Una devozione verso la Croce che salva e purifica e che viene baciata con fervore quando il sacerdote la impone davanti al fedele. Un credo potente che è capace di richiamare per la funzione migliaia di persone che riverse a terra si prostrano fin fuori i cancelli baciando la terra sacra.
Tutto questo appartiene però solo al Nord del Paese, che appare uno stato completamente differente rispetto al Sud, ove resiste ancora un mondo selvaggio abitato da popoli indigeni e animisti, con tutt’altra storia e tradizioni.

L’Omo Valley, ovvero l’area del Sud, è una regione che è stata esplorata solo di recente e che ospita numerose etnie con usi e costumi quasi primitivi. Queste popolazioni si sono, purtroppo, trovate improvvisamente esposte ai rischi di un impatto troppo cruento con il mondo occidentale ed il consumismo. Il primo pericolo è il turismo di massa. Quel che potrebbe rappresentare una leva di sviluppo per l’economia locale in questa situazione di equilibrio delicatissimo tra tradizioni, natura e cultura indigena può divenire una causa di distruzione. Lo sfruttamento della loro immagine attraverso la pratica, dietro compenso, della fotografia e dei filmati da parte degli stranieri sta mettendo in serio pericolo l’esistenza di queste antichissime tribù. Nel giro di pochi anni, infatti, gli uomini hanno dedicato sempre meno tempo all’attività pastorale, per posare per le foto dei turisti in cambio di pochi spiccioli. Questo ha portato ad un preoccupante abbandono delle attività lavorative da parte della popolazione e, quindi ad una sempre maggiore dipendenza dalla presenza forestiera. Inoltre, c’è da considerare che il denaro, pressoché sconosciuto in passato, è spesso utilizzato per acquistare alcol o armi e munizioni – che rappresentano degli status symbol – generando notevoli problemi sociali e conflittuali.

L’Etiopia è, quindi, un Paese di varietà e contrasti, che tuttavia si uniscono e amalgamano come l’aroma intenso del caffè che ritrovi ed inebria qualsiasi tucul, hotel turistico, sacrestia, villaggio o bettola. E non importa che tu sia cristiano, animista o musulmano, povero o ricco, affamato o rubicondo, vestito di una bianca shamma o di un gonnellino di pelle di capra, sempre, ma proprio sempre ti verrà offerta quella fumante e profumata tazzina che ristora di certo anche il cuore.

Un ringraziamento speciale a tutti coloro che hanno donato medicine e abitini per bambini, che gli autori hanno personalmente portato a Zizenchu.


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