L’Accordo di Meech Lake del 1987, concluso senza la partecipazione dei popoli aborigeni, non portò alcun cambiamento sull’autogoverno. L’Accordo venne firmato dal Primo Ministro federale e dai dieci premier provinciali, che approvarono le proposte fatte dal nuovo premier del Quebec, Bourassa, formulate in modo da poter essere approvate anche dalle altre province, più il riconoscimento del Quebec come société distincte e una richiesta delle Province dell’Ovest sulla nomina dei senatori. Per entrare in vigore l’Accordo doveva essere ratificato entro il 23 giugno 1990 dalle due Camere del parlamento federale e dalle assemblee legislative provinciali. Mentre si accumulavano le critiche all’Accordo, il deputato indiano del Manitoba, Eliah Harper riusciva a farlo saltare, bloccando la ratifica da parte del Manitoba per dimostrare l’opposizione delle First Nations contro qualsiasi progetto di protezione costituzionale della “particolarità” del Quebec senza una precedente costituzionalizzazione dello speciale status aborigeno come entità autogovernanti. La posizione di Harper era condivisa dalla maggior parte degli indiani, che rivendicavano una legittimità storica ad essere riconosciuti come una “società distinta” superiore a quella dei québécois, una rivendicazione che era stata rifiutata in una conferenza costituzionale poche settimane prima di quella di Meech Lake.
Nel settembre 1991 il governo federale formulò le sue proposte in Shaping Canada’s Future Together, in cui riconosceva il fatto che i nativi si erano autogovernati storicamente e proponeva la costituzionalizzazione di un diritto all’autogoverno non inerente che doveva essere esercitato entro la cornice costituzionale canadese. I contenuti di questo diritto dovevano essere negoziati tra governo federale e aborigeni, chiarendo così l’opposizione canadese al riconoscimento dello status delle First Nations come stati nazione in senso internazionale, com’era sostenuto da vari gruppi indiani.
L’Accordo di Charlottetown dell’agosto 1992, di cui molta parte concerneva i diritti aborigeni, andò molto oltre la proposta federale. Proponeva un diritto inerente all’autogoverno da trincerare nella Costituzione e riconosceva i governi aborigeni come uno dei tre ordini di governo del Canada. I negoziati che dovevano seguire si sarebbero concentrati sull’autogoverno, comprendendo questioni di giurisdizione, terre e risorse e arrangiamenti economici e fiscali. L’Accordo forniva ai tribunali una serie di linee guida costituzionali per l’interpretazione legale del diritto di autogoverno proponendo l’inserzione di una «dichiarazione contestuale»; rivelava la volontà delle parti a dirimere le questioni irrisolte per via di negoziato e non per vie legali; proponeva di garantire la rappresentazione aborigena al Senato aggiungendo dei seggi aborigeni, indicava il problema della rappresentazione alla Camera dei Comuni e intendeva migliorare i rapporti tra First Nations e Corte Suprema prendendo in considerazione l’idea di un Consiglio Aborigeno degli Anziani con titolo di fare raccomandazioni alla Corte Suprema quando la Corte considerava questioni aborigene. Infine l’Accordo proponeva di estendere la responsabilità federale sotto la sez. 91(24) del Canada Act del 1867 fino a includere tutti i popoli aborigeni del Canada, ponendo così fine all’incertezza della responsabilità verso i Métis. Se l’Accordo fosse stato ratificato avrebbe rappresentato un cambiamento fondamentale nei rapporti tra governo e aborigeni, ma esso venne bocciato dal referendum dell’ottobre 1992.
La situazione dietro l’Accordo era però tutt’altro che semplice e spiega perché molti indiani votarono contro, in contrasto con le indicazioni dei loro delegati dell’Assembly of First Nations (AFN). Infatti, mentre il concetto di inerenza tentava di riconoscere lo status storico di autogoverno aborigeno, la frase qualificante “entro il Canada” in effetti precludeva il riconoscimento fuori della cornice costituzionale canadese, delegittimando così qualsiasi rivendicazione di sovranità in senso internazionale da parte di governi aborigeni, anche se elevava l’attuale base legislativa. Il paragrafo 41 indicava che i poteri legislativi aborigeni si sarebbero sovrapposti a quelli federali e provinciali e che in tale caso di conflitto le leggi dei governi aborigeni avrebbero avuto la preminenza sulle leggi federali e provinciali. Il paragrafo 60 dichiarava che ci sarebbe voluto il consenso aborigeno per futuri cambiamenti costituzionali che riguardassero le popolazioni native. Tuttavia il paragrafo 47 dichiarava che le leggi approvate dai governi aborigeni non dovevano essere in contrasto con quelle leggi che sono essenziali per la preservazione della pace, dell’ordine e del buon governo in Canada. Un’altra limitazione all’autorità dei governi aborigeni consisteva nell’applicazione del Charter of Rights and Freedoms, cui i nativi erano contrari in base ad argomentazioni ideologiche di tipo culturale.
Da parte sua, la Native Women’s Association of Canada (NWAC), che affermava di rappresentare un grande numero di donne indiane, sosteneva che i governi delle First Nations dovevano essere soggetti al Charter, dato che l’eguaglianza sessuale garantita dalla sezione 15 è un diritto umano universale che non dovrebbe essere violato dai governi nativi, che continuano a discriminare pesantemente le donne indiane. Questa guerra del NWAC contro l’AFN aveva origine dall’opposizione che l’AFN aveva fatto all’approvazione del Bill C-31, che rimuoveva le clausole sessiste dall’Indian Act, aboliva il concetto di «enfranchisement» (eliminazione dello status indiano), restituiva lo status indiano e di cittadinanza di banda a chi lo aveva perso a causa dell’Indian Act (soprattutto donne e i loro figli) e concedeva agli indiani il diritto di stabilire i propri codici di cittadinanza. Durante il processo per l’Accordo di Charlottetown il NWAC aveva contestato che l’AFN parlasse per le donne indiane e aveva lanciato un’azione legale per ottenere rappresentanza e fondi separati presso la Corte Federale del Canada, ma aveva perso.
L’Accordo, se fosse passato, avrebbe concesso ai governi aborigeni uno status unico in rapporto al Charter, dando loro l’occasione di staccarsi dalla tradizione costituzionale democratica canadese, creando un notevole potenziale per il pluralismo legale e per una significativa anomalia entro la struttura del federalismo canadese. I leader delle organizzazioni aborigene reagirono con disappunto e frustrazione alla bocciatura referendaria dell’Accordo ma, almeno per quel che riguarda l’AFN, avevano torto. Infatti i sondaggi post-elettorali mostrarono che oltre il 60% dei canadesi era d’accordo con i cambiamenti costituzionali proposti per i popoli aborigeni e che aveva bocciato l’Accordo per le altre proposte. Il disappunto di Métis e inuit rifletteva quello dei loro rappresentati, che avrebbero ricevuto grandi vantaggi dall’Accordo stesso; tuttavia i risultati dei seggi elettorali nelle riserve mostravano inequivocabilmente che l’Accordo era stato rifiutato dai due terzi degli status Indians. La spaccatura tra gli status Indians rifletteva le tensioni che esistevano da tempo al loro interno, rafforzate dall’eccezionalità del processo in atto. L’ostilità tra l’AFN e il NAWC provocò il voto contrario di molte donne indiane (anche se la Inuit Women’s Association of Canada, il Métis National Council of Women e l’Ontario Native Women’s Association appoggiavano l’Accordo), mentre varie riserve ritiravano il loro appoggio all’AFN e addirittura rifiutavano i seggi per il referendum, obbligando i membri che volevano votare ad andare fuori riserva.
L’opposizione dei «treaty Indians» si basava sull’argomentazione che il diritto inerente all’autogoverno proposto nell’Accordo implicava in modo scorretto che tale diritto era creato dallo Stato canadese, mentre molti «treaty Indians» sostenevano che quel diritto è già posseduto dalle First Nations ed è stato negoziato nei trattati, su una base che essi sostenevano essere «da-nazione-a-nazione» e ha lo status legale degli accordi internazionali. Di conseguenza alcuni leader dei «treaty Indians» sostennero che, dato che i trattati sono in essenza degli accordi internazionali, qualsiasi negoziato concernente il contenuto degli stessi e i diritti per trattato deve essere condotto esclusivamente su base bilaterale da-nazione-a-nazione. Essi escludevano perciò di fare parte di un processo tripartito di negoziati che comprendessero le Province. Essi, inoltre erano contrari all’inclusione dei Métis nella sez. 91(24), pensando che la loro inclusione potesse indebolire l’obbligo fiduciario della Corona verso gli status Indians fondato in quella sezione, oltre che rimpiccolire la fetta dei fondi federali. La Assembly of First Nations, come il suo predecessore la National Indian Brotherhood, non aveva mai goduto dell’egemonia sugli indiani canadesi, a causa delle differenze culturali, dei livelli diversi di sviluppo economico, delle posizioni ideologiche e delle differenti situazioni nei rapporti con lo Stato canadese. Anche il fatto che la parte della riforma costituzionale aborigena dell’Accordo fosse legata così pesantemente all’agenda del Quebec pesò negativamente. Infatti, la velocità e la pressione dei negoziati in cui furono invischiati i leader indiani erano antitetiche alla natura consensuale e pensosa di molte tradizioni aborigene, un problema che aveva pesato per secoli nei rapporti con la tradizione politica euroamericana.
Il fallimento della ratifica dell’Accordo di Charlottetown del 1992 ha avuto come conseguenza l’accentuarsi delle tendenze centrifughe dentro l’AFN, con la dichiarazione della fazione indipendentista, esemplificata dagli irochesi mohawk, che solo i loro capi li rappresentano e la fondazione di una nuova organizzazione da parte di vari leader dei «treaty Indians», l’United Treaty First Nations Council (UTFNC). Intanto, oltre a cercare una base costituzionale per il governo aborigeno, il governo federale ha seguito la sua agenda attraverso lo strumento della delega, la sistemazione di rivendicazioni specifiche e comprensive e lo spostamento di un sempre maggiore livello di responsabilità per i programmi e servizi aborigeni ad altri dipartimenti federali, come la Giustizia, il Lavoro e l’Immigrazione, la Sanità e il Welfare e la Procura Generale. Nel 1992 venne riorganizzato anche il DIAND, in particolare a livello regionale, che sottolineava l’aspetto di delega a livello di banda. La creazione di uffici d’affari intergovernativi a livello regionale rifletteva un approccio da parte del governo federale volto a incrementare un rapporto più da-governo-a-governo con le First Nations, anche in anticipazione della approvazione dell’Accordo di Charlottetown. Con il fallimento dell’Accordo questo approccio ha assunto una base più pragmatica. La politica della delega ha significato anche un restringimento del DIAND e una tendenza a un coinvolgimento maggiore delle Province nella politica e nei programmi aborigeni, il che è un aspetto un po’ ironico, se si pensa che l’opposizione indiana aveva fatto fallire l’Accordo proprio per tener fuori le Province. Il 1992, comunque, rappresenta uno spartiacque nella storia politica dei nativi canadesi, perché ha teso a soddisfare gran parte delle richieste che i leader nativi facevano fin dagli anni Settanta. Anche se l’Accordo fu respinto da parte della comunità indiana più garantita, in realtà esso fallì per cause legate alla politica generale canadese al di là del controllo dei leader aborigeni.
Intanto, nel 1993, la Royal Commission on Aboriginal Peoples è tornata al più forte argomento legale per il diritto all’autogoverno concludendo che questo diritto è già contenuto nella Costituzione nella sua forma attuale. Questa argomentazione si basa sul fatto che la Proclamazione Reale del 1763 riconosceva la sovranità aborigena che formava il prerequisito per l’entrata degli indiani nella Confederazione canadese. Entrambi i Constitutional Acts, perciò, incorporano tacitamente questa regola imperiale e la trasformano in dettato costituzionale. Così l’autogoverno è un «diritto esistente» entro il significato della sez. 35(1) del Constitutional Act del 1982.
Che cosa pensano i canadesi non aborigeni della concessione di uno status speciale agli indiani? Una serie di interviste condotte da vari organismi ha dato delle risposte interessanti. Nell’inchiesta condotta tra il 1986 e il 1988 dal prof. Ponting dell’Università di Calgary (1989)29 risultava che, con l’eccezione dei residenti del Manitoba e del Saskatchewan, i canadesi reagivano positivamente all’idea di una speciale protezione culturale per gli indiani; particolarmente favorevoli erano i residenti delle sei province più orientali. Tuttavia circa i due terzi dei canadesi si opponevano a uno status speciale per gli indiani che andasse oltre la questione culturale. La massiccia pubblicità dei media durante e dopo le Conferenze dei Primi Ministri e dei Leader Aborigeni non aveva virtualmente avuto impatto cognitivo sulla pubblica opinione. I canadesi erano ostili in quasi maggioranza all’idea di concedere, oltre allo status speciale, speciali diritti di caccia e pesca agli indiani, anche se i pareri variavano a seconda delle Province. Non erano ostili però alla gestione delle risorse di caccia e pesca da parte dei governi di banda, purché il governo federale garantisse che non ci fossero abusi. I canadesi appoggiavano molto il desiderio dei nativi di proteggersi dagli effetti negativi dello sviluppo industriale. Avevano molta simpatia per le rivendicazioni indiane sulle terre in contrasto con l’industrializzazione (ma i residenti della British Columbia erano contrari, a parte Vancouver). Anche se molti pensavano che le rivendicazioni di terre da parte degli indiani non fossero valide, c’era più appoggio che ostilità. Due terzi dei canadesi pensava che i trattati dovessero essere aggiornati per venire incontro al bisogno di cambiamento delle società indiane.
Anche se una consistente minoranza si sentiva ansiosa alla prospettiva di un autogoverno indiano, un gran numero di canadesi non lo era. Tuttavia non c’era una grande fiducia nelle capacità manageriali dei leader indiani e l’ideologia egualitaria faceva chiedere al canadese medio perché gli indiani avrebbero dovuto ricevere di più degli altri cittadini, dato che sembravano violare in generale l’etica del lavoro protestante. Tuttavia non vi era un mandato al governo perché tagliasse il Welfare agli indiani. Nel 1991 la Royal Commission on Aboriginal Peoples ebbe l’incarico di investigare l’evoluzione dei rapporti tra i popoli
aborigeni, il governo canadese e la società canadese nel suo complesso e fare delle raccomandazioni. Nel 1994 la Commissione presentò il suo rapporto, da cui risultava che, mentre i canadesi appoggiavano i diritti individuali, erano a disagio nel riconoscere diritti di gruppo come quelli che scaturiscono dal concetto aborigeno di autogoverno. Essi vedevano questo approccio all’autogoverno portare a una divisione istituzionale basata su cultura e razza. Risultati simili sono scaturiti da un’inchiesta che l’Angus Reid Group ha svolto su incarico, tra l’altro, del DIAND e dell’AFN dopo il fallimento dell’Accordo di Charlottetown nel 1992. I dati dei quebecchesi dicevano, per il 71%, che gli indiani dovrebbero concentrarsi sulla povertà e sul miglioramento delle condizioni di vita e solo il 24% nominava l’autogoverno come prima questione. Il 43% era dell’opinione che gli aborigeni non hanno più diritto all’autogoverno degli altri gruppi etnici e il 53% pensava che un’organizzazione politica con poteri simili a quelli di una municipalità sarebbero i più appropriati per i popoli nativi. Il diritto all’autogoverno, secondo il 50% delle risposte, dovrebbe essere applicato solo agli indiani che vivono in riserve riconosciute; l’89% sosteneva che i governi aborigeni dovrebbero seguire gli stessi principi basilari degli altri governi canadesi e il 61% concludeva che sarebbe ingiusto che gli aborigeni godessero di diritti speciali. Anche se il 33% riconosceva il fallimento di molti sforzi fatti dai non indiani verso i nativi, il 65% pensava che un numero limitato di rivendicazioni era legittimo e dovesse essere compensato. Questa inchiesta, come la precedente, dimostra che c’è una consapevolezza da parte dell’opinione pubblica sulla necessità di fare dei cambiamenti nella legge allo scopo di migliorare le condizioni di vita degli aborigeni, ma vi è una forte e chiara riluttanza, da parte della società dominante non indiana, ad accettare l’autogoverno aborigeno come mezzo per introdurre dei sistemi legali indigeni separati (Leonardy 1994:12).
Leonardy, Matthias R. J., First Nations’Self-Government In Canada. Segregation or Legal Pluralism?, in European Review of Native American Studies 8:1 1994.
Junquera, Carlos, Canadian Public Opinion Vis-a-vis The Authochtonous Populations of the Mackenzie River, 1960-1990, in European Review of Native American Studies 6:2 1992.
Ponting, J. Rick (direttore del progetto) Research Unit for Public Policy Studies (R:U:P:P:), Facoltà di Scienze Sociali,Profiles of Public Opinion on Canadian Natives & Native Issues 1986-88, abridged edition, The University of Calgary, 1989.
Rubboli, Massimo, Il Canada. Un federalismo imperfetto (1864-1990), Americana Giunti, Firenze 1992
Magazine Cultura
Etnicità 13b: La via canadese verso la sovranità e l’autogoverno aborigeno
Creato il 29 dicembre 2013 da DavidePotrebbero interessarti anche :
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