Per i razzisti il dogma razziale spiega le differenze fisiche e comportamentali tra gli esseri umani e li classifica verticalmente su questa base in “razze”, che sono considerate sia “naturali” che volute da Dio. Il dogma razziale impregna profondamente le nozioni popolari di biologia e in particolare la mistica del “sangue”. «Il “sangue” è il mezzo mistico che trasferisce da genitore a figlio caratteristiche fisiche e le qualità morali, intellettuali e psicologiche ad esse legate» (Blu 1980:24). Questa idea è presente nei più comuni proverbi popolari del genere “buon sangue non mente” e simili; il sangue è una sostanza che può essere razzialmente pura o razzialmente inquinata.
Per i bianchi il sangue nero inquina quello bianco in modo assoluto e, d’altra parte, il sangue bianco tende a migliorare il sangue nero, anche se non può purificarlo completamente. Questa ideologia è meglio rappresentata dalla società schiavista del Sud degli Stati Uniti e dalle leggi sulla schiavitù e sulla miscegenation, la mescolanza razziale. In particolare il sangue nero porta con sé una sessualità sfrenata per la quale il bianco cristiano prova orrore. La mescolanza tra neri e indiani non è altrettanto grave e le idee sul «sangue indiano» paiono meno formalizzate: se questo sangue è entrato in famiglia qualche generazione fa non è inquinante, anzi può addirittura essere nobilitante. Sono molti a vantare una «principessa indiana», preferibilmente cherokee, tra i propri antenati, non ultimo il Presidente Clinton, secondo i biografi elettorali.
Mentre bastano pochissime gocce di sangue nero per rendere una persona nera, ci vuole una gran quantità di sangue indiano per fare un «vero» indiano. Le idee sulle qualità del sangue indiano sono le più diverse, dall’innata pigrizia al nobile, persino eccessivo, orgoglio, ma esso non è sessualmente pericoloso. I bianchi hanno creato una piramide sulla cui cima hanno posto loro stessi, poi ci sono gli indiani e poi i neri. Gli indiani non hanno mai veramente contestato questa divisione, stando ben attenti a non farsi confondere con i neri, ovunque ciò era possibile e, anche attualmente, impostando il discorso politico esclusivamente tra bianchi e indiani e ignorando tutte le altre “razze” ed etnie americane (oggi cominciano a confrontarsi anche con gli indiani ispanici e i chicanos, cioè i messicano-americani).
Con il passare del tempo gli indiani hanno teso a sposare persone di altre razze o altre tribù in maniera vistosa, così la biologia non è più un indice di identità affidabile. Secondo il demografo Russell Thornton oltre il 50% degli indiani degli USA è sposato a non indiani, contro l’1% dei bianchi e il 2% dei neri che sposano qualcuno di un’altra razza. Secondo le proiezioni di Thornton, se continuano questi schemi matrimoniali, gli indiani con un quantum di sangue del 50% o più diminuiranno dall’87% del 1980 all’8% del 2080. In generale le culture tradizionali si fondano sulla lingua e istituzioni come la religione, ma oggi la maggioranza degli indiani parla solo inglese e solo i vecchissimi parlano correntemente la lingua tradizionale e la maggior parte degli indiani è cristiana. La cultura indiana oggi consiste spesso nella partecipazione a danze, powwow e avvenimenti speciali come certi giochi della palla tradizionali, il lacrosse degli Irochesi o lo stickball delle Cinque Tribù oppure i Quarantanove, gruppi di canto che seguono i powwow. Alcuni costumi sono vecchi di secoli, come le danze dei Pueblo, ma altre sono d’annata più recente. I powwow si diffusero per tutto l’Ovest rapidamente dopo la Prima Guerra Mondiale e i Quarantanove dopo la Seconda Guerra.
Anche se per i critici e gli storici della letteratura indiana uno scrittore indiano è uno che si identifica come tale e viene riconosciuto dalla sua tribù anche se non è iscritto uffucialmente ad essa, la maggior parte degli scrittori indiani moderni sono mixed blood e il loro grado di indianità varia da quelli che sono sempre stati immersi nella vita tribale, ad altri che hanno fatto uno sforzo da adulti per riscoprire le loro radici ad altri che hanno al massimo solo tenui connessioni con il mondo tribale (Velie 1997:5-10).
In risposta alla domanda “che cos’è un indiano?”, N. Scott Momaday, poeta e romanziere, vincitore di un Premio Pulitzer e un tipico esponente dell’intellettuale indiano (la famiglia paterna è Kiowa – con una bisnonna schiava messicana – la madre era vagamente,un ottavo, Cherokee ed egli ha vissuto gli anni della scuola tra i Pueblo e i Navajo, da cui è stato influenzato) affermava:
«La risposta naturalmente è che un indiano è un’idea che un dato uomo ha di se stesso. Ed è un’idea morale, perché rende conto del modo in cui reagisce agli altri uomini e al mondo in generale. E quell’idea, per essere realizzata completamente, deve essere espressa (Indian Voices 1970:49)» (in Blu 1980:235).
Karen Blu osserva giustamente che non può stupire troppo «che l’ineffabilità centrale e la preminenza della propria identità di gruppo è stata notata da un certo numero di nativi americani, che in vari momenti degli ultimi duecento anni sono stati soggetti a pressioni perché rinunciassero alle loro identità distintive dalle politiche assimilazioniste dei governi statale e federale e la cui genuinità è costantemente messa in dubbio dalle accuse di «perdita culturale» e dalle argomentazioni sul “quantum di sangue”» (Blu 1980:234). Ella cita una osservazione molto interessante di Louis W. Ballard, un Cherokee-Quapaw, che corrisponde perfettamente all’idea di comunità inventata di Hobsbawan; Ballard afferma che la nuova identità nazionale prende a prestito selettivamente elementi del repertorio del passato e li assume come propri:
« Così sembra un po’ strano quando gli indiani dicono che non vogliono essere bianchi, quando allo stesso tempo sono molto attaccati all’uso delle comodità moderne. Comunque, una delle caratteristiche dell’indiano e, suppongo, di molte culture come quelle degli indiani, è di selezionare quello che può usare – e renderlo “indiano”, nel suo uso».
E Horace Locklear, Lumbee, alla seconda celebrazione annuale del Lumbee Homecoming del 1971 dichiarava in una intervista:« Indiano è uno stato della mente, non hai veramente bisogno di perline o piume» (Blu 1980:234-235). Pur sapendo che sarebbe escluso dall’identità, Jack Forbes sostiene:
«Riassumendo, il solo tipo di persona che potrebbe essere categorizzato come «indiano americano» con sicurezza in ogni e qualsiasi circostanza è un individuo che è di ascendenza non mista o virtualmente non mista degli Stati Uniti e che 1) risiede in una comunità indiana, 2) è membro di una organizzazione tribale e 3) partecipa al modo di vita del gruppo a cui appartiene; oppure 1) risiede in un ambiente urbano (di solito temporaneamente), 2) mantiene contatti con «casa» e 3) partecipa alle attività delle organizzazioni intertribali o club tribali» (Forbes 1969:126).
I termini «full blood» e «mixed blood» possono avere, e in realtà hanno, un senso differente da quello biologico. Il Sovrintendente dell’Agenzia Sioux di Pine Ridge scriveva in una lettera del 1937 al Commissario agli Affari Indiani:« La tipica persona cui mi riferisco come a un mixed blood è ben esemplificata dal Presidente del Consiglio Tribale. Egli è orgoglioso del suo atteggiamento da bianco. Egli si riferisce ai full blood nelle sue lettere e nei suoi discorsi come a indiani da razioni e indica che essi sono non-progressisti e non-intelligenti». Ovviamente nessuno oggi userebbe parole così politicamente scorrette, anche se Feraca, da cui ho tratto la citazione afferma maliziosamente:
«Mi affretto ad aggiungere, però, che ho conosciuto e continuo a conoscere molti mixed blood che si riferiscono ai tipi full blood come «neri» (di colore), come «proprio come i negri (niggers)» (nel comportamento), come «dumb Indians» [idioti] e molti altri appellativi spiacevoli. Alcuni di questi stessi individui occupano posizioni influenti come indiani di professione» (Feraca 1990:18).
Dal canto loro i full blood, come Duane Hollow Horn Bear, appartenente a una aristocratica famiglia dei Brulé della riserva di Rosebud, South Dakota, e dentro il consiglio tribale elettivo da anni, alla domanda su che cosa pensava dei mixed blood, fatta da una persona del pubblico (pluralista e democratico) di una conferenza a Firenze nel 1996, ha usato una sola parola: “Trash” (spazzatura), lasciando interdetti gli astanti.
L’antropologo Gordon McGregor, che ha servito anche lui come Sovrintendente di Agenzia, ha coniato i termini mixed blood e full blood «sociologici». Il full blood sociologico assomiglia all’indiano di riserva tradizionale ma modificato senza badare a una qualsiasi mistura di altre tribù o altre razze e il mixed blood sociologico assomiglia più ai bianchi del vicinato. Un tempo queste due categorie si dividevano, secondo un’altra terminologia, in «blanket Indians» (indiani con la coperta) o tradizionalisti e indiani «progressives» o progressisti, una designazione molto utile in riserve come quella Hopi o quella Navajo, dove pressoché la quasi totalità degli indiani è full blood biologicamente, parla correntemente la lingua tribale e si divide politicamente secondo gli ideali e lo stile di vita. Come osserva Feraca, questo concetto diventa sempre meno utile man mano che un numero sempre maggiore di mixed blood, che in altro periodo si sarebbero fatti un vanto di portare i capelli corti, si sono lasciati crescere i capelli come segno di etnicità (e, probabilmente, per influenza indiretta dei giovani del movimento hippie e della Nuova Sinistra universitaria), partecipano alle danze indiane e in cerimonie religiose come la Danza del Sole e si accompagnano a sciamani.
Anche i full blood stanno rapidamente perdendo, con le debite eccezioni, i loro caratteri distintivi, come la lingua tribale, per influsso della televisione e l’urbanizzazione, un carattere che un tempo li distingueva anche se erano bilingui.
Vine Deloria Jr., ideologo nazionalista Yankton Sioux (fenotipicamente e culturalmente mixed blood) caratterizza la differenza tra indiani tradizionalisti o “tribali” e quelli che fanno riferimento alla fazione elettiva, che sostiene il Consiglio tribale dell’IRA, o “etnici”, all’interno delle riserve in questo modo:
«I tradizionalisti tendono a investire troppa fiducia nella capacità delle istituzioni americane di eseguire gli atti morali che sarebbero necessari ad assicurare quello che vogliono. Gli indiani etnici considerano i tribali non realistici e romantici, che guardano indietro alle vecchie glorie del passato e non in avanti a nuovi programmi ed esperienze. I tribali spesso considerano i loro oppositori ideologici come totalmente privi di principi, pragmatici al punto di non avere tempra morale e sostengono che essi considerano il governo tribale, non la gente, come tribù» (Deloria-Lytle 1984:242).
Senza entrare nel merito, si può facilmente comprendere da queste osservazioni di Deloria come la differenza sia, per certi versi, tra laici e fondamentalisti.
Blu, K. I. 1980.The Lumbee problem: The Making of An American Indian People. Lincoln: University of Nebraska Press.
Deloria, V., Lytle, C.M. 1984. The Nation Within: The Past and Future of American Indian Sovereignty. Austin: University of Texas Press.
Feraca, Stephen E. Why Don’t They Give Them Guns?: The Great American Indian Myth. Lanham: University Press of America. 1990.
Forbes, J. D. 1969 [1967]. Nevada Indians Speak. Reno: University of Nevada Press.
Velie, A. R. American Indian Literature: An Anthology. Norman: University of Oklahoma Press, 1997.