Di cosa parlano gli antropologi quando usano la parola ‘etnicità’? Il termine viene dal greco antico ethnos, che pare fosse riferito, ma faremo un’analisi più approfondita in seguito, a una serie di situazioni in cui una collettività umana viveva e agiva insieme e che oggi si traduce di solito con ‘gente’ o ‘nazione’. Fin dall’inizio del XX secolo il termine e il concetto ad esso collegato di gruppo etnico hanno preso molte direzioni, sia in ambito accademico che al di fuori. Dopo che il termine ‘razza’ è caduto in disuso dopo la seconda guerra mondiale, etnicità si è fatto avanti a riempire il vuoto nella riorganizzazione spesso sanguinosa del mondo post Guerra Fredda e così l’osceno eufemismo di ‘pulizia etnica’ ha sostituito le equivalenti espressioni di ‘igiene razziale’ e ‘soluzione finale’.
Come scrive Richard Jenkins (1998:9-12), è quindi importante chiarire qual è il nostro soggetto di studio, l’etnicità, cosa è e cosa non è. Un primo e importante riferimento sociologico ai gruppi etnici si trova nell’opera di Max Weber, Economia e Società ( prima edizione 1922). Secondo Weber un gruppo etnico si basa sulla credenza condivisa dai suoi membri che, per quanto distante, vi sia una discendenza comune. Ciò può derivare oppure no da quello che Weber chiama ‘tipo antropologico’, cioè ‘razza’, differenza fisica o fenotipo:
“l’appartenenza etnica non costituisce un gruppo; facilita solo la formazione di gruppi di ogni genere, particolarmente nella sfera politica. D’altro canto, è primariamente la comunità politica, non importa quanto artificialmente organizzata, che ispira la credenza nella comune etnicità” (Weber 1978:389)
Questo tipo di definizione ha fatto dire all’interno della comunità antropologica, scherzosamente ma mica tanto, che allora anche gli impiegati della City di Londra potrebbero essere definiti un ‘gruppo etnico’. Potrei aggiungere, in base alla stessa analogia, che in Italia in particolare i membri e simpatizzanti dell’ex PCI dentro il Partito Democratico hanno tratti da ‘gruppo etnico’.
Tornando a Weber, lo studioso sembra suggerire che la credenza in una comune discendenza dagli stessi antenati è probabilmente la conseguenza di un’azione politica collettiva anziché la causa; la gente arriva a vedere se stessa come appartenente alla stessa cosa, come proveniente da un comune background, come conseguenza dell’azione comune. Gli interessi collettivi così non riflettono semplicemente né derivano da somiglianze e differenze tra persone; il perseguire interessi collettivi, però, incoraggia l’identificazione etnica. In termini di azione collettiva questo senso di comunità etnica è una forma di recinto sociale monopolista: definisce l’appartenenza, l’eleggibilità e l’accesso. Infine Weber sostiene che dato che le possibilità per l’azione collettiva radicate nell’etnicità sono ‘indefinite’, il gruppo etnico, e il concetto più prossimo, la nazione, non possono essere definiti in modo preciso dal sociologo.
Il successivo contributo sociologico alla comprensione dell’etnicità proviene da Everett Hughes (1948 prima edizione), un sociologo della Scuola di Chicago, che ha letto Weber e respinge i concetti basati sul senso comune e la tradizione etnologica contemporanea che ancorano l’etnicità semplicemente a ‘tratti culturali’ distintivi. Hughes afferma (1994:91) che un gruppo etnico non è tale in quanto si differenzia in modo misurabile od osservabile da altri gruppi, ma al contrario, esiste perché i suoi membri e quelli al di fuori di esso lo riconoscono come tale. Sia quelli dentro che quelli fuori parlano, sentono e agiscono come se fosse un gruppo separato. Ciò è possibile solo se esistono modi per dire chi è membro e chi no, e se uno sente l’appartenenza in modo profondo e irrevocabile. Hughes afferma che se è facile lasciare un gruppo, dare le dimissioni da esso, allora non è un vero gruppo etnico.
In effetti, osserva Jenkins, i concetti di Hughes si possono parafrasare così: le differenze culturali etniche esistono in funzione dell’appartenenza al gruppo, perciò l’esistenza di un gruppo non è un riflesso di differenze culturali. Cosa altrettanto importante, i gruppi etnici implicano relazioni etniche e le relazioni etniche implicano almeno due soggetti collettivi, non sono unilaterali. L’identità è questione importante non solo di chi è dentro, ma anche di chi è fuori. Perciò non dovremmo studiare solo una minoranza in un paese, senza studiare anche la maggioranza. Hughes afferma che se i gruppi in questione hanno rapporti sufficienti da irritarsi a vicenda, ciò accade perché formano una parte di un tutto, sono in qualche modo membri dello stesso corpo. In effetti, posso aggiungere, l’etnicità si forma tra gruppi vicini, non tra gruppi lontani. Riprenderemo questo discorso.
In Weber e Hughes vi sono gli inizi dell’emergere del modello sociale costruzionista dell’etnicità che gli antropologi hanno fatto proprio, anche se nella comunità antropologica il concetto di etnicità non divenne popolare fino agli anni 1960 a cominciare dagli USA, con un graduale spostamento dal concetto di ‘razza’ a ‘cultura’ a ‘etnicità’. Questo trend può anche essere interpretato come un cambiamento nella concettualizzazione di una delle unità basilari dell’analisi antropologica, dalla ‘tribù’ al ‘gruppo etnico’, e più di recente questo trend si è ampliato per riflettere un crescente interesse per la ‘nazione’ e il modo in cui gruppi etnici e categorie di persone sono incorporate negli stati. Lo studio dell’etnicità e del nazionalismo sono un’area di studio in espansione continua in antropologia e questo fatto ha incoraggiato una sana diversità di vedute, anche se resta solidamente ancorato alla ricerca empirica. A livello di meta-teoria, comunque, nota Jenkins, vale la pena di notare che i testi etnografici su specifiche località contribuiscono, anche se di default, alla perpetuazione di un punto di vista assiomatico del mondo sociale come un mosaico di differenze culturali discontinue e definite, piuttosto che una rete continua e senza cuciture di variazione culturale intersecante e sovrapposta. (segue)