Rovistando tra le cartelle dei miei file, ho ritrovato queste due lettere che scrissi (via email) a Neri Pollastri, presidente di Phronesis - Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica. Era l’ottobre del 2006. Alla prima, il mio interlocutore rispose; la seconda, invece, aspetta ancora una risposta. Era la prima volta, da quando avevo elaborato la mia teoria, che uscivo allo scoperto. In quella occasione avevo tentato di trovare dei punti di contatto tra l’etoanalisi (nome che non avevo ancora coniato) e la “consulenza filosofica”. Mi era sembrato, infatti, che tra le due attività pratiche vi fossero delle affinità interessanti. Il silenzio che seguì alla mia seconda lettera mi fece capire quanta “chiusura” mentale ci fosse da parte di chi si propone di instaurare un dialogo teso alla ricerca delle diverse modalità di pensare il mondo. Io, in effetti, fui piuttosto critico nei confronti di un certo modo d’intendere e interpretare la filosofia. Non sono stato, riconosco, né troppo tenero né troppo “diplomatico”; tuttavia, la mia sincerità non doveva essere “premiata” con il silenzio.
A titolo d’informazione, riprendo dal sito di Neri Pollastri (www.consulenza-filosofica.it) la definizione di consulente filosofico e della sua attività pratica: «Spesso confusa con le attività psicoterapeutiche, a causa delle affinità esteriori che ha con esse quando praticata con individui (si può fare consulenza anche in gruppo, ad esempio in aziende e organizzazioni), la consulenza filosofica le si differenzia in modo sostanziale, abbandonando non solo ogni intenzionalità terapeutica, ma anche ogni volontà di risolvere problemi: essa è solo ed esclusivamente un libero dialogo critico, che ha per unici obiettivi la comprensione e l'ampliamento della visione del mondo. Sulla base dell'assunto che pensare bene la vita sia presupposto essenziale per vivere bene […]. Di fronte alle difficoltà esistenziali, c’era finora una sola possibilità: rivolgersi a uno psicoterapeuta. Ma ogni disagio ha quasi sempre radici nel modo in cui si interpreta la realtà, segue da confusioni, incoerenze e mancanza di comprensione dei presupposti della propria concezione del mondo. Per questo in molti casi, più che rivolgersi a un "medico" che cerchi una "cura", può essere opportuno un esperto nell’elaborazione delle idee e dei pensieri, che ci aiuti a far luce e chiarezza sui complessi rapporti che intercorrono tra interpretazione del mondo e scopi, valori e significati, concetti e aspettative. Ovvero a trasformare una visione del mondo irriflessa in una filosofia personale».
Sono convinto tuttora che tra l’etoanalisi e la consulenza filosofica possano esserci dei punti di contatto. Voglio dire che sono ancora convinto (forse anche di più rispetto a qualche anno fa) che il dialogo possa essere fecondo, purché la consulenza filosofica non si limiti alla sola filosofia ma sappia estendere il campo anche ad altre discipline. Il punto di dissenso nei confronti della consulenza filosofica è e resta sempre lo stesso: presupporre che chi abbia studiato filosofia (il consulente) abbia una visione della realtà più chiara del consultante, e che sulla base di questa maggiore chiarezza possa aiutare, tramite il dialogo, l’altro a far luce sulla propria visione della realtà. Detto in questi termini, in fondo in cosa si risolve la consulenza filosofica? In un mero scambio di idee! Il consulente, grazie ai suoi studi filosofici, crede di avere i mezzi critici e analitici per far “partorire” maieuticamente (o socraticamente) la verità dell’altro. È la più tradizionale riproposizione che la filosofia attuale potesse fornire in questo Terzo Millennio, senza offrire nessun filtro critico e teorico. Praticamente si tratta di riprendere e riproporre l’ideale socratico e di reimpiantarlo nel cuore della contemporaneità. Potrei aggiungere che è riproposizione più acritica e afilosofica della stessa filosofia. Dov’è la novità? Mi chiedo. A volte, lo spirito della consulenza filosofica mi fa pensare alle scuole ellenistiche, nate dalla dissoluzione e dalla decadenza della polis greca. Stoicismo, epicureismo, scetticismo: tutte scuole che partivano dall'assunto "che pensare bene la vita sia presupposto essenziale per vivere bene".
Ho scoperto la figura del consulente filosofico parlando con alcuni amici.
Da qualche anno lavoro alla messa in opera di una teoria sulle dinamiche interpersonali. Qualcuno di loro mi ha fatto osservare che tale teoria si inquadra perfettamente in questo emergente ambito filosofico. Spinto dalla curiosità di verificare questa osservazione ho cominciato a interessarmi di questa figura, ed effettivamente ho dovuto constatare che c’erano tanti punti in contatto. Anch’io, mentre elaboravo la mia teoria, avevo in mente un mediatore interdisciplinare capace di individuare i punti di vista dei soggetti all’interno della relazione, al fine di capire quali fossero gli elementi di tensione e di conflitto, latenti o manifesti, e come portare a consapevolezza dei soggetti tutto ciò.
Credo che Il mio lavoro darà un contributo notevole allo sviluppo della figura del consulente filosofico, perciò chiedo se l’Associazione è interessata a conoscerlo nei particolari contattandomi via email.
Ottobre 2006
Cordiali saluti
Gentilissimo dott. Bruno Corino,
la ringrazio del contatto e dell’interesse manifestato per la consulenza filosofica. La nostra associazione ha senz’altro interesse a confrontarsi con persone che svolgono forme di ricerca in questo campo e in settori affini. Dalle poche osservazioni da lei fatte nella sua lettera mi è ovviamente difficile comprendere quale e quanta affinità vi sia tra la figura del consulente filosofico (sulla quale, devo dire, c’è una spaventosa confusione oggi in Italia) e quanto lei sta elaborando; ma, proprio per questo, sono interessato a saperne di più attraverso altri contatti con lei.
In attesa di sue altre comunicazioni, la saluto cordialmente,
Neri Pollastri, Presidente di Phronesis - Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica
Gentilissimo Presidente,
anzitutto la ringrazio dell’attenzione che ha voluto dedicarmi con la sua cortese risposta. Tuttavia, prima di entrare nel merito della sua sollecitazione e chiarire l’affinità tra la mia teoria e la figura del consulente filosofico, ho bisogno di fare alcune precisazioni in merito alla funzione della filosofia nel mondo contemporaneo. Visitando il sito della vostra Associazione Filosofica, ho letto il modo in cui presentate sia la funzione della consulenza filosofica che il ruolo del consulente filosofico. Da un lato notavo una certa vaghezza concettuale, e dall’altro il bisogno di una specificazione operativa. Condivido l’idea che il consulente filosofico «non offra teorie, ma piuttosto pratiche e strumenti ecc. ecc. » (cito le parole di Ran Lahav), ma non credo che voglia dire che egli debba essere sfornito di teorie, altrimenti cadrebbe in una situazione a dir poco paradossale: è come se si dicesse che uno studioso di Weltanschauung sia sprovvisto di una sua particolare Weltanschauung, cioè come dire che Mannheim ha scritto inutilmente Ideologia e utopia!
Ebbene dirò che quando ho fatto la scelta universitaria, iscrivendomi alla Facoltà di Filosofia, l’ho fatto perché ritenevo (e tuttora lo ritengo) che la filosofia sia l’unica disciplina elaborata dalla mente umana che può autodefinirsi “senza confini”. Qualsiasi altra disciplina costringe il sapere a circoscriverlo in un ambito specifico. Se vogliamo, questa è la forza ma anche la sua debolezza. La sua forza perché il discorso filosofico non si è mai sottratto al confronto con altri ambiti del sapere; e più di una volta la riflessione filosofica ha avuto il merito di risollevare questi ambiti quando essi entravano in crisi (penso soltanto, per fare degli esempi fulminei, a come l’opera di Wittgenstein abbia contributo a rinnovare le basi epistemologiche della sociologia o della psicologia, o a come l’antropologia filosofica di Gehlen abbia contribuito a ripensare la posizione dell’uomo nel mondo e nella natura – basta leggere quanto ha scritto a tal proposito Umberto Galimberti in Psiche e techne). La sua debolezza perché – come da tempo hanno sottolineato coloro che si occupano di questo problema – essendo privo di un oggetto specifico, il discorso filosofico corre il rischio di risultare troppo generico e poco concreto nell’affrontare i problemi attuali della vita.
Vaghezza e determinatezza: credo che siano queste le due qualità paradossali della filosofia, ma anche quelle che più affascinano coloro che si accostano ad essa. Indeterminatezza/determinatezza, come insegna la Scienza della logica di Hegel, sono le due categorie dialettiche da cui emerge l’Essere. Dunque, il discorso filosofico vive nella tensione di porre dei limiti al sapere ma allo stesso tempo vive nella necessità di indicare il modo di trascenderli. Come insegnava il compianto professor Emilio Garroni, la filosofia è uno «sguardo attraverso». Questa premessa mi aiuta a chiarire meglio il discorso sulla Teoria che sto elaborando. A coloro che mi domandavano in quale disciplina essa s’inserisce – poiché comunque abbiamo il bisogno di identificare qualcosa – io ho sempre risposto: in tante ma in nessuna in particolare, perché attraversa tante discipline ma non si colloca in nessuna di esse. Per dare un’idea degli autori a cui più esplicitamente e più frequentemente mi richiamo, fornisco un elenco sommario: dalla sociologia ho considerato soprattutto gli interazionisti simbolici (Mead, Blumer, Goffman); la fenomenologia sociologica di Berger e Luckmann; la pragmatica della comunicazione della Scuola di Palo Alto; l’antropologia filosofica di Gehlen e la riflessione di Galimberti; la filosofia sociologica di Simmel; la teoria sociologica di Luhmann; la teoria dell’attaccamento di Bowlby; il pensiero di René Girard; la lettura meditata di Massa e potere di Elias Canetti.
Ciò di cui m’occupo è un esame delle dimensioni e delle strutture dell’intersoggettività umana, un tema molto caro a Hegel, Dilthey, Husserl, Merleau-Ponty, Wittgenstein e allo stesso Sartre. Ma è un tema che rileggo e interpreto alla luce degli altri autori appartenenti ad altri ambiti disciplinari non specificamente filosofici. Per studiare queste dimensioni e queste strutture, ho dovuto prima di tutto specificare la dimensione biologica entro al quale l’essere umano si trova a vivere, selezionando specifiche modalità interattive che prima di entrare a far parte della dimensione sociale e culturale – e quindi di essere socialmente “addomesticate” – sono, appunto, parte integrante del nostro essere biologico. Queste modalità interattive sono in realtà delle strategie d’azione e reazione interpersonali messe in atto, consapevolmente o inconsapevolmente, dai soggetti sociali allo scopo di affermare o di preservare il proprio Sé. Secondo le mie ipotesi, nello scambio con l’altro, il Sé “adotta” specifiche strategie comportamentali, dirette dall’atteggiamento che il Sé ha nei propri e negli altrui confronti. Ne ho selezionate e individuate tre, e sono: la prevaricazione/sottomissione, la competizione/adulazione, la seduzione/adattabilità. Ogni modalità interattiva comprende sia uno schema d’offesa, volto all’affermazione del Sé, che uno schema di difesa, volto alla preservazione del Sé; le mosse di uno schema sono coordinate sulle mosse dall’altro schema. Queste modalità interattive, incorporate in ogni essere umano, si rivelano non soltanto nello scambio con l’altro sé, ma anche nei confronti degli oggetti e dello spazio entro cui l’attore viene a trovarsi, poiché esse costituiscono delle modalità operative attraverso le quali i soggetti attribuiscono significato al loro agire. In altri termini, le nostre interpretazioni del mondo, i nostri scopi e valori, le nostre aspettative e categorie dipendono dalla modalità prevalente che noi abbiamo incorporata. Quindi, se la premessa è valida – e ovviamente in questa sede non mi è possibile svilupparla in tutte le sue conseguenze – allora vuol dire che conoscere o portare a conoscenza la nostra particolare modalità interattiva ai soggetti significa far comprendere loro qual è la sorgente dei loro problemi, delle loro ansie e dei loro dilemmi quando essi si presentano sulla scena della vita quotidiana. Questa consapevolezza si raggiunge non attraverso tecniche psicoterapeutiche o analisi dell’inconscio, ecc., ma «praticamente», cioè facendo riflettere il soggetto sul modo in cui interagisce con prossimo, facendo emergere il particolare “suo punto di vista”. Eccoci al cuore del problema: perché sostengo che una tale teoria s’inquadri perfettamente nel tema della consulenza filosofica? Perché è appunto uno studio sul “punto di vista” degli esseri umani. Il Sé è l’affermazione o la preservazione di un punto di vista all’interno di un’interazione sociale, poiché esistono diversi stili nell’affermare o nel negare, a secondo dei casi, il proprio e l’altrui punto di vista. Molto dipende dal “potere” di cui gli attori sociali dispongono, nel saper “imporre”, “convincere” o “influenzare” l’altro sulla superiorità del proprio punto di vista. Se la consulenza filosofica si rivolge a un singolo individuo, allora essa deve essere capace di farlo riflettere su di sé, facendogli capire che la sua soggettività è il prodotto di un’esperienza “vissuta” nella pratica quotidiana, non il frutto di una sua particolare disposizione interiore.
Capisco che ancora una volta il mio discorso non sia stato del tutto esauriente, ma gentilissimo Presidente deve comprendere che una teoria alla quale lavoro da anni non potrà essere riassumibile in poche righe
Grazie di nuovo per la pazienza e spero che avremo ancora modo di poter dialogare
Cordiali saluti