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Eugenio Montale, “Ammazzare il tempo”

Creato il 20 giugno 2012 da Marvigar4

montale

Eugenio Montale, Ammazzare il tempo (da Auto da fé. Cronache in due tempi, Il Saggiatore, Milano 1966.)

   Il problema più grave del nostro tempo non è tra quelli che si vedono denunziati a caratteri di scatola nelle prime pagine dei giornali; e non ha nulla in comune, per esempio, col futuro status di Berlino o con l’eventualità di una guerra atomica di struggitrice di una metà del mondo. Problemi simili sono d’ordine storico e prima o poi giungono a una soluzione, sia pure con risultati spaventosi. Nessuna guerra impedirà all’umanità futura di vantare ulteriori magnifiche sorti nel quadro di una sempre più perfetta ed ecumenica civiltà industriale. Un mondo semidistrutto, che risorgesse domani dalle ceneri, in pochi decenni assumerebbe un volto non troppo diverso dal nostro mondo d’oggi. Anzi, oggi è lo spirito di conservazione che rallenta il processo. Qualora non ci fosse più nulla da conservare il progresso tecnico si farebbe molto più veloce. Anche l’uccisione su larga scala di uomini e cose può rappresentare, a lunga scadenza, un buon investimento del capitale umano. Fin qui si resta nella storia. Ma c’è un’uccisione, quella del tempo, che non sembra possa dare frutto. Ammazzare il tempo è il problema sempre più preoccupante che si presenta all’uomo d’oggi e di domani.

   Non penso all’automazione, che ridurrà sempre più le ore dedicate al lavoro. Può darsi che quando la settimana lavorativa sarà scesa da cinque a quattro o a tre si finisca per dare il bando alle macchine attualmente impiegate per sostituire l’uomo. Può darsi che allora si inventino nuovi tipi di lavoro inutile per non lasciare sul lastrico milioni o miliardi di disoccupati, ma si tratterà pur sempre di un lavoro che lascerà un ampio margine di ore libere, di ore in cui si potrà eludere lo spettro del tempo.

   Perché si lavora? Certo per produrre cose e servizi utili alla società umana, ma anche, e soprattutto, per accrescere i bisogni dell’uomo, cioè per ridurre al minimo le ore in cui è più facile che si presenti a noi questo odiato fantasma del tempo. Accrescendo i bisogni inutili, si tiene l’uomo occupato anche quando egli suppone di essere libero. “Passare il tempo” dinanzi al video o assistendo a una partita di calcio non è veramente un ozio, è uno svago, ossia un modo di divagare dal pericoloso mostro, di allontanarsene. Ammazzare il tempo non si può senza riempirlo di occupazioni che colmino quel vuoto. E poiché pochi sono gli uomini capaci di guardare con fermo ciglio in quel vuoto, ecco la necessità sociale di fare qualcosa, anche se questo qualcosa serve appena ad anestetizzare la vaga apprensione che quel vuoto si ripresenti in noi.

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   Montale, un poeta che osserva negli anni sessanta del Novecento la trasformazione dell’uomo e del tempo dell’uomo, cogliendo in anticipo questioni fondamentali poste dalla nuova civilizzazione tecnologica. L’esperienza storica delle guerre mondiali ha insegnato che si possono distruggere città, uomini e paesi ricostruendo più o meno quello che era andato devastato, salvo riedificare la voragine psichica che la guerra aveva creato negli esseri umani e che, forse, non è mai stata chiusa. “Ammazzare il tempo” diventa per Montale il nodo cruciale del futuro dell’umanità: non la distrazione e la ricreazione dopo le otto ore lavorative, ma una sorta di lavoro suppletivo che tende ad “occupare” le persone, a narcotizzarle pur di evitare loro uno scontro diretto con il Kronos, il tempo calcolabile in cui ognuno è costretto a non riflettere, a non analizzare i propri vuoti, i vuoti stessi prodotti dall’idea del tempo. Sono i “bisogni inutili” che oggi ben conosciamo e che Montale aveva soltanto intuito: bisogno di evadere dalla realtà riempiendo spazi che altrimenti la noia renderebbe invivibili (non l’ennui del dandy di Baudelaire, che ha a che fare comunque con la creazione artistica), necessità di appropriarsi dei minuti, delle ore facendole scorrere vorticosamente pur di non viverle direttamente con tutto il bagaglio angoscioso che esse apportano. Sballarsi, dimenticare ciò che si è, annullarsi, rimuovere il tormento dell’esistenza attraverso attività ancora più alienanti, azioni ossessive e compulsive divenute abitudini imprescindibili. Montale pensava alla televisione o allo spettacolo del calcio, non poteva ancora conoscere ciò che la rivoluzione informatica avrebbe realizzato, i nuovi strumenti telematici che si sono aggiunti agli antichi, quali il computer, Internet, i cellulari, gli iPod ecc.. Quell’ “Ammazzare il tempo”, che negli anni ’60 significava trascorrere le otto ore non lavorative davanti al teleschermo, allo stadio o in una sala da ballo, si è evoluto, diventando una nuova catena di montaggio per la produzione dei bisogni inutili, occupando i lavoratori nella costruzione di oggetti tecnologici tesi a sottrarre illusoriamente l’uomo all’abisso del tempo. Il problema non è stato risolto, dinanzi all’Eternità di un tempo non calcolabile il nostro piccolo e ingombrante tempo va distolto, accantonato, addomesticato, addomesticando noi con quelle piccole “uccisioni” quotidiane che ci separano dalla percezione della fine, della morte. Forse Montale ha riflettuto sul fallimento di tutto o quasi il pensiero occidentale, ha consolidato ulteriormente i suoi dubbi, come la parte finale della sua produzione poetica dimostra (cfr. Rabberciando alla meglio / il sistema hegeliano / si campa da più di un secolo / E naturalmente invano in Poesie disperse, 1981), sposando uno scetticismo che ricorda molto le ultime considerazioni di Martin Heidegger, ma non si esclude che il pessimismo radicale del poeta genovese sia fondamentalmente l’appressarsi suo al tramonto della vita, all’occidente che in questa parte del mondo pesa come un macigno sulla nostra cultura.

© Marco Vignolo Gargini



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