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Eugenio Müntz, Firenze – Il Duomo

Da Paolorossi

Facendo il giro di questo immenso poligono, più d'una sorpresa - e gradevolissima - ci attende. Prima di tutto l'eleganza e la varietà delle incrostazioni, composte da lastre di marmo bianco di Carrara, di marmo verde di Prato e di marmo rosso delle Maremme. Gli Italiani si distinsero sempre nei diversi rami del musaico; a Santa Maria del Fiore, essi hanno superato loro stessi.

Sebbene il partito adottato in massima per l'esterno di Santa Maria del Fiore sia l'ornamentazione liscia, in certi punti, si unì a quest' ultima la decorazione in rilievo. Prendiamo la prima porta laterale settentrionale : il musaico e la scultura si sposano a un'arte perfetta, malgrado la severità relativa dello stile; gli stipiti sono fiancheggiati da colonnette, la cui parte inferiore è come protetta da leoni o leonesse , 1′ uno che tiene fra le zampe un fanciullo nudo, l'altra che veglia sui suoi nati. Nella lunetta una scultura perfettamente arcaica, una Vergine fra due angioli.

La seconda porta, dallo stesso lato, "la porta della Mandorla", è ancora più ricca: non vi sono che fascie di verde di Prato, colonnette incrostate con marmo nero, pilastri che spariscono sotto le sculture, teste di leone in bronzo, statuette d'apostoli, statue alla base e sulla cima dei pinnacoli; infine, per completare tale quadro abbagliante, un musaico in cubi di vetro, a fondo d'oro, un' Annunciazione eseguita alla fine del secolo XV dal Ghirlandaio.

Nell'interno vastissimo, tutto è allo stesso livello; le parti basse si collegano alla navata principale in modo da formare con essa una specie di piazza, ove la vista è limitata dal muro destro, liscio, nudo, senza cappelle laterali, senza nicchie, senza nulla che conferisca degli sfondi, del chiaroscuro, del mistero. La mancanza di sedie e d'altri mobili, tranne che in un angolo e nel coro, ove sono degli stalli moderni, aumenta ancora la nudità dell'ambiente.

Tutto, sino al pavimento, cominciato sui disegni di Baccio d'Agnolo, l'abile architetto del XVI secolo, continuato su quelli di suo figlio Giovanni, tutto rattrista lo sguardo: non vi sono che dei grandi disegni vuoti, rettangoli, ottagoni, ecc., di marmo bianco e grigio, e in qualche punto anche rosso. Come mai nel paese del colore si ebbe ricorso ad una simile monocromia?

Collocate pure a Santa Maria del Fiore un numero dieci volte maggiore di sculture che non ne contenga attualmente, essa apparirà sempre vuota. Sembrerebbe che, come a San Pietro in Roma, l'architetto abbia mirato soltanto all'insieme. Soltanto la cupola coi suoi otto giganteschi oculi, provvisti d'invetriate, colpisce per le sue dimensioni e per la sua arditezza. Eppure, non dimentichiamolo, i capi d'opera che ornano Santa Maria del Fiore, formerebbero la gloria di dieci cattedrali e di dieci grandi città. Le creazioni della scultura vi si trovano in numero eccezionale.

Dal XIV secolo il bisogno di far risaltare la forma sino all'inverosimile, e dall'altro lato la ricerca del colore e dello splendore, avevano raggiunto il loro estremo limite. Le superficie piane erano letteralmente proscritte ; non si cercavano che gli angoli rientranti e sporgenti. L'occhio non sapeva ove riposarsi in un tal dedalo di nicchie e di rilievi. L'espressione della vita, agli occhi di quegli artisti inquieti, risiedeva nella varietà delle forme.

La pila dell' acqua santa del Duomo, di cui per lungo tempo s'attribuì il disegno a Giotto, ma che in realtà appartiene alla scuola di Pisa, fornì un esempio memorabile di siffatte combinazioni, e di tale alternarsi di lince.

Non fu colpa degli amministratori di Santa Maria del Fiore, se il loro santuario non s'arricchì d'una lunga serie di capolavori scolpiti dal loro illustre concittadino Michelangelo: sin dal 1503, essi gli ordinarono le statue dei dodici Apostoli dandogli un termine di dodici anni di tempo per compierli. Ma il maestro sopraccarico d'altre commissioni non riuscì che ad abbozzare una di tali statue, il San Matteo, oggidì conservato all'Accademia di Belle Arti a Firenze. Negli ultimi anni, ridivenuto più libero delle sue azioni, egli volle dimostrare la sua gratitudine ai suoi concittadini, e nel medesimo tempo innalzare a se stesso un monumento nella sua città natale; le statue degli Apostoli essendo state nel frattempo affidate ad altri artisti, egli rivolse tutti i suoi sforzi sopra un gruppo rappresentante la Deposizione della Croce. Dichiariamolo sùbito: il lavoro riuscì male; Michelangelo stesso ne rimase così malcontento da farlo a pezzi; non ci vollero che le vive istanze dei suoi amici per far ch'egli acconsentisse allo scultore Tiberio Calcagni di rimetterlo insieme. Cotesto gruppo malaugurato non era ancor alla fine delle sue peripezie: soltanto nel 1722 venne collocato nella metropoli fiorentina.

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( Eugenio Müntz, brano tratto da "Firenze e la Toscana", Fratelli Treves Editori, 1899 )

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