Qualche tempo fa avevamo stigmatizzato Eugenio Scalfari che - pur lasciandosi qualche "exit-strategy", aveva sponsorizzato Renzi, gratificandolo anche con una dichiarazione di voto. Poi, e devo dire quasi subito, era iniziata una lenta retromarcia, lungo l'abituale tracciato "ho votato Renzi > ho votato Renzi, chi altri avrei potuto votare? > ho votato Renzi però... > ho votato Renzi, ma non credo che lo rivoterei". Il tutto all'insegna del non-detto, o del detto a metà.
Ora Repubblica non riesce più a "tenere" le sue firme. Non le migliori. Non Curzio Maltese, che ha addirittura lasciando, per candidarsi alle europee con la lista Tsipras; non Federico Fubini, che non ha mai seguito gli ordini di scuderia; non Michele Serra; non Filippo Ceccarelli .Questi (e altri) se Ezio Mauro e De Benedetti li vogliono, devono acconciarsi a lasciarli scrivere ciò che pensano, e non già ciò che la proprietà vorrebbe che facessero finta di pensare.
A questo punto l'editore De Benedetti deve decidere se continuare a sostenere Renzi, sperando (e forse invano) che questo lo aiuti a risolvere i suoi "problemi elettrici", o salvare ciò che si può salvare di Repubblica, evitando di far fuggire a gambe levate verso altri lidi le firme migliori, ed acconciandosi all'equazione che sfasciare Repubblica facendo fuggire le penne migliori non risolverebbe i problemi dell'Ing. De Benedetti, ma ne aggiungerebbe un altro: la crisi di Repubblica. Alla quale, a ruota, si aggiungerebbe quella de l'Espresso. De Benedetti se ne faccia una ragione: non salverà le centrali elettriche affidando le posizioni-chiave di Repubblica a giornalisti alla Stefano Folli, pronti a lavorare con "Franza o Spagna, purchè se magna".
Scalfari sembra averlo capito. Ma gli altri? Vorranno e potranno fare la conversione a U in appoggio alla destra guidata da Renzi sotto le insegne del PD, oppure saranno spinti da questa dissennata politica editoriale nelle braccia dei vari "Fatto Quotidiano" ed "Huffington Post", o del Corrierone, che a questo punto è diventato meno di destra di Renzubblica?
Quello che segue è un abstract della retromarcia odierna. Lieve, senza grattate, ma pur sempre retromarcia. Il renzismo è in via d'estinzione, e non sarà salvato dalla "indulgenza plenaria" concessa agli statali per via di "Giobatta". Di tutto si può accusare Scalfari, tranne del fatto che non abbia un orecchio molto allenato ad avvertire i primi scricchiolii delle navi che stanno per affondare... Tafanus
La coerenza è merce rara, ma in Italia la conosce solo la mafia (ovvero: il completamento della ri-riconversione di Eugenio Scalfari) (Fonte: Eugenio Scalfari - Repubblica)
Tre temi della massima importanza, i primi due hanno già suscitato profonde divisioni e aperto un confronto molto serrato con le organizzazioni sindacali dei lavoratori, mentre il terzo è finora ignorato da giornali e pubblica opinione, ma il governo ci sta lavorando e susciterà anch'esso nel momento in cui sarà presentato in Parlamento, proteste altissime e profonde divisioni.
Ho già scritto domenica scorsa che il Jobs Act non crea alcun nuovo posto di lavoro, semmai può distruggerne alcuni. Saranno infatti assunti altri precari per un periodo massimo di tre anni, con salari inizialmente assai bassi ma lentamente crescenti. Dopo tre anni gli imprenditori decideranno se assumerli con un contratto a tempo indeterminato ma fermo restando che non godranno - come invece ancora accade per i vecchi assunti - dell'articolo 18. Per i nuovi assunti il 18 non esiste più; ci sarà dunque una diversa contrattualità per lavoratori che fanno il medesimo lavoro nella medesima azienda. La questione potrebbe creare imbarazzi con la Corte Costituzionale.
Il Jobs Act non crea dunque alcun posto di lavoro. Potrà forse promuovere i precari in dipendenti regolari di quell'azienda (ma senza articolo 18) concedendo contemporaneamente un forte risparmio agli imprenditori che saranno premiati con l'esenzione dai contributi e con la piena libertà di licenziare i neoassunti durante i primi tre anni ma anche dopo, contro pagamento di un indennizzo da trattare tra le parti.
Il Jobs Act ha avuto nel corso del suo iter parlamentare sotto forma di legge delega molteplici mutamenti, quasi tutti in maggior favore degli imprenditori. In questi ultimi giorni sono usciti i due primi decreti attuativi che saranno presentati alla commissione parlamentare incaricata di fornire al governo un parere puramente consultivo, ma già si sa che in quei decreti c'è anche un trattamento per i licenziati collettivamente (in numero da cinque in su): anche in questo caso indennizzi ma non reintegro deciso - come era un tempo - dal giudice del lavoro.
Grande soddisfazione degli imprenditori ma altrettanto grande opposizione dei sindacati che protestano, invieranno ricorsi alla Corte di Bruxelles contestando i licenziamenti collettivi e forse indiranno nuovi scioperi di categoria o generali. Si può ovviamente dissentire in merito ma sta di fatto che il governo ha scelto da che parte stare e non è una scelta accettabile quella dei forti mettendosi sotto i piedi i deboli.
Si dice che leggi di questo tipo sono gradite dalla Commissione Europea, dalla Bce e dal Fmi. A me non pare. Quei tre enti desiderano che l'Italia, come tutti i governi dell'Eurozona, rispetti gli impegni presi: il "fiscal compact", una politica tendente a ridurre il debito pubblico sia pure con qualche concessione nei tempi e nella quantità, l'aumento della produttività e della competitività. Con quali strumenti questi due ultimi obiettivi debbano essere realizzati non c'è scritto da nessuna parte. Secondo me dovrebbero essere realizzati dagli imprenditori attraverso la creazione di nuovi prodotti e nuovi metodi di produzione e distribuzione. Dell'articolo 18 all'Europa non interessa nulla, riguarda il governo italiano. Produttività e competitività riguardano le aziende e chi le guida, il costo del lavoro, i licenziamenti eventuali e quanto ne deriva pesano esclusivamente sui lavoratori. Per un partito che si definisce di sinistra democratica questa scelta non mi sembra molto coerente.
La legge elettorale approderà in Parlamento la prossima settimana, e il primo voto dovrebbe avvenire prima del 14 gennaio, giorno in cui sembra che Napolitano lascerà il Quirinale. A me quella legge complessivamente sembra una buona legge che contiene nell'ultimo articolo la clausola di garanzia secondo la quale non potrà essere applicata prima dell'autunno 2016.
La chiamano l'Italicum e - lo ripeto - mi sembra efficace ma è aggrappata all'abolizione del Senato, riforma che mi sembra invece pessima. Ne ho spiegato più volte i motivi e non starò dunque a ripetermi, ma è evidente che la legge elettorale della Camera senza più un Senato crea un regime monocamerale che rafforza moltissimo il potere esecutivo e attenua i poteri di controllo del potere legislativo.
Questo è l'aspetto estremamente negativo: non l'Italicum ma il Senato relegato ad occuparsi delle attività delle Regioni essendo i suoi membri eletti dai rispettivi Consigli regionali. Per un governo che vuole rafforzare i propri poteri questa riforma è l'ideale.
Terzo argomento la legge di Bilancio. Attualmente ce ne sono tre: quello che fu un consuntivo del bilancio alla fine dell'anno; quella che un tempo si chiamò legge finanziaria e indica la politica economica e i suoi obiettivi per l'anno futuro; la terza è il trattato europeo dal quale deriva il "fiscal compact" applicato all'Italia da una deliberazione di Bruxelles che ha valore costituzionale per tutti i Paesi dell'Unione. Ricordo tra parentesi che nella Costituzione italiana esiste l'articolo 81 (che fu ispirato da Luigi Einaudi, a quell'epoca ministro del Bilancio e ancora governatore della Banca d'Italia).
Era molto semplice l'articolo 81: tre commi in cui la frase decisiva diceva: "Non può esser fatta alcuna spesa senza che ne sia indicata l'entrata corrispondente". Ricordo che negli anni Sessanta esisteva alla Camera un comitato di Bilancio (del quale io feci parte nella legislatura 1968/72) al quale andavano tutte le leggi di spesa per un controllo preliminare. Il comitato aveva a disposizione tutti i dati necessari per valutare se il dettato dell'articolo 81 fosse stato rispettato. Se il parere era negativo il governo ritirava il disegno di legge per rifarlo su basi completamente diverse.
Credo che quel comitato sia stato sciolto e forse ricostituito con nuove e più elastiche mansioni. Ma la legge di Bilancio, sia pure attenuata, esiste tuttora e discute, approva o respinge il bilancio sempre sulla base dell'articolo 81 che però è stato alleggerito con l'abolizione del terzo comma dal governo Monti nel 2012.
Nel prossimo autunno quella legge sarà fusa con l'attuale legge di stabilizzazione. Nel frattempo la parola pareggio è stata sostituita (negli studi preparatori in corso) dalla parola equilibrio. La legge deve cioè dimostrare per il passato e promuovere per il futuro l'equilibrio tra le entrate e le spese. All'articolo 81 dunque diamo addio. È chiaro che l'equilibrio sarà anche valutato dal Parlamento cioè dalla Camera ed è chiaro altrettanto che la Camera è un'assemblea in gran parte di "nominati" dalle segreterie del partito che vincerà le elezioni. E poiché siamo un Paese di spendaccioni, è legittimo pensare che il debito continuerà ad aumentare come del resto sta già avvenendo sia pure in regime di "fiscal compact". Avveniva perfino con l'81 vigente, aggirato in vari modi; figurarci ora che sarà completamente abolito che cosa farà la "Compagnia dei magnaccioni". Dio ci scampi, ma temo che il Padreterno sia in tutt'altre faccende affaccendato [...]
Eugenio Scalfari
0401/0615/1545