Eugeniusz Tkaczyszyn-Dycky, UNA NOTIZIA DELL’ULTIMO MINUTO, Il ponte del sale 2012

Analisi, questa, alquanto superficiale, assai da approfondire e verificare, forse supportata dal valore del cantare riconosciuto da una communio tra scrittore e lettore, in funzione di un abbeveramento spirituale nei territori socialmente deprivati – condizione, questa, necessaria, del resto, perchè ci sia poesia -
Ma è anche un’impressione di forte contrasto la mia, nata dalla lettura delle poesie di Eugeniusz Dycki, sintomatiche, a mio avviso, dello stato di alienazione culturale cui è pervenuta la figura del poeta contemporaneo, il quale, qui, almeno da quanto si può avvertire negli esiti della traduzione, rinuncia a ogni forma di immaginario collettivo in nome, invece, di una semplificazione degli strumenti retorici utilizzati in funzione di ossessioni personali che tendono ad escludere il contorno, a stare dentro il potente cerchio distruttivo della parola. E’, forse, proprio questa semplificazione dello sguardo – tale da illuminare di una inedita luce barocca tutta la nostra “neopesia” – a rendermelo interessante.
E tuttavia l’opera di Dycki é criticamente illuminata da interpretazioni attinenti l’area di una strumentazione barocca: “in generale tutta quella retorica del paradosso fatta di costruzioni sintattiche ambigue giocate su un sapiente uso di enjambement, epifrasi, anafore, iperbati”… “; ma anche tematiche: “presenza ossessiva della morte… toni tetri e cupi”, per poi demolire l’ipotesi di un Dycki neo-barocco che “quella stessa tradizione barocca in qualche modo capovolge”.
Perché, mi chiedo: puó avvenire la poesia senza la consapevolezza che la rinuncia alla storia della poesia possa rappresentare l’opportunitá del conoscere-facendo, tipico del gioco infantile?
Essendo poi la condizione infantile dell’artista adulto, solo lo stato metaforico di una presunta verginità, ecco allora che il gioco dell’adulto non puó che presentarsi nella forma del duro lavoro, della consapevolezza della pesantezza, del superamento costante del giá visto e del giá sentito.
Mentre il bambino per conoscere ha bisogno di accumulare, il poeta adulto, per conoscere, ha bisogno di sottrarre.
Ecco: mi sembra di avvertire nell’opera di Dycky, una rarefazione che diventa pesantezza, sintomatica di un clima di deprivazione che costringe la parola a interrogarsi sulle proprie stesse necessitá – é interessante, poi, come lo sguardo ridotto all’osso, induca a una auscultazione del corpo, delle proprie pulsioni elementari -.
Rimane da verificare se nel caso di questo corpo/musa, sia possibile riferirsi anche a un corpo sociale castrato da una grande madre intrusiva, ipotesi accennata anche dai prefattori e traduttori, Alessandro Amenta e Lorenzo Costantino: ” La biografia del poeta sembrerebbe emergere di continuo dai suoi versi: i luoghi, i fatti, i personaggi di cui parla sono quelli della sua vita o della sua infanzia. E tuttavia parlare del carattere biografico della poesia di Dycki puó essere rischioso…(…) Chissá, per esempio, se la figura della madre del ciclo dyckiano non sia un ribaltamento di un’altra figura “materna”, quella mariana (…) e che attraverso questo ribaltamento il poeta non attui una demitizzazione dell’intera tradizione letteraria della madre-Polonia”.
Mentre dalle nostre parti il tema del corpo é diventato vessillo di una poesia al femminile – e questo, in parte, per evidenti richiami legati ai cambiamenti sociali e antropologici – qui il tema del corpo sembra essere rivestito dell’ ambiguità di indifferenziazione madre/figlio, quindi parola che non stacca il figlio dal corpo della madre attraverso l’intervento del padre, ma che lo canalizza lungo il segmento di un vivere indistinto, di un tragico che rinuncia alla maschera e mostra il suo volto giá morto nel nascere.
non sono mai stato tanto vicino
al morire di qualcuno accettando
il morire che sono da quando
mi ha nutrito mia madre
p 63
sono morto ieri è morto il mio corpo
dal quale è uscito fuori un serpente
che era innamorato del corpo di una donna
ma la mattina si svegliava nel corpo di un uomo
p 74
Nell’opera di Dycki si realizza l’impossibilitá di superare un novecento doloroso, di riappropriarsi di un soggetto al centro della propria socialitá; che ha perduto, insomma, il titanismo macbethiano capace di catapultare il soggetto al di sopra della Storia proprio perché immune dal corpo della madre, non essendo nato da donna. Eppure, nel riconoscimento di questa limitatezza, sprovveduto e possibile appare il progetto di una parola piú a misura d’uomo. Defraudata e innocente.
Sebastiano Aglieco
***
nelle case delle nostre madri regnava l’amore
il latte era l’amore il primo e il più pieno
quando diventammo ragazzi le nostre madri
uscirono di casa come streghe e non tornarono più
diventammo ragazzi belli e molto infelici
le nostre madri uscirono di casa e non tornarono più
nel pieno delle loro facoltà mentali qualcuno le vide
fuggire con le camicie di forza portandoci con loro
p.21
*
il mio amico è malato
si è attorniato come un lattante del dolore del parto
il suo corpo che contiene la speranza del mio corpo
è già in cammino come un ramo di melo che fiorisce
dà un segno della sua presenza e come un ramo carico del frutto
non significa nulla il mio amico è malato e trema il suo corpo
il mio amico sta morendo e io gli porto la fatica
un sonno a cui non risponde alcun respiro
p. 22
*
prima di scoprire la tua morte nella stanza
al decimo piano e di vederla nello stupore
della tua nudità e prima di scoprire la morte
come qualcosa che viene dopo la colazione il pranzo e la cena
ho capito che l’uomo disteso davanti a me
sotto le lenzuola di ieri notte e l’uomo disteso tra i gigli
sono il mio amico la mia fisiologia sono innanzitutto
il mio amico e la mia fisiologia
qualcosa di sacro
p. 24
*
è passato un angelo accanto
a mia madre ha detto
tu non sei malata
Stefania e ha taciuto
perchè la verità era questa
sono passato accanto a mia
madre molte volte e ogni volta
mi mancava la terra sotto i piedi
come se sulla sua esistenza
mentissi spudoratamente
tu non sei malata
tu non lo sei dicevo
e piangevo giacché
nessuno sapeva la verità
p.29
*
l’urlo è un ritorno alla madre
anche nel caso tu non lo volessi
l’urlo è un ritorno alla madre
la prima fonte di maternità
e anche nel caso tu non lo volessi è l’ultimo radicamento
l’urlo è per non abbandonare se stessi
perchè nel grembo della madre non ci sia trapasso né labbra
di dissipazione nel silenzio del mattino che si affaccia
p. 32
*
il mio amico è morto e dai morti
non risorgerà troppo vivo sinora
il suo corpo è nella terra e come la terra
parla di tutto con me
e respiriamo di nuovo come allora quando schiudevamo
i nostri desideri senza sapere ancora nulla
delle bare che spostavamo nei sogni
delle bare ne sapevamo quanto la terra
nella quale pensiamo di prender gusto
a tutto quello che ci apparirà in sogno
il mio amico è morto e parla con me
di quel che accade perchè possa esistere
p. 37
*
Il contrabbandiere
scrivo versi sempre più oscuri quando è giorno
e mi siedo davanti a un foglio rigettando parole
vuote e ispirazione non c’è ispirazione signore
e signori la carta è quel che rimane della notte
la carta è quel che rimane delle molte e molte notti
quando gli assenti scrivono versi sempre più oscuri
zitto sei solo un idiota che si affanna
a rigettare ispirazione ossessioni precetti:
“ricordati di onorare i morti tanto quelli di ieri
quanto quelli di oggi rinunciando a parole vuote”
non ci sono parole vuote signore e signori nello scontro
con un luogo abbandonato da qualcuno che pare sia venuto
a mancare nel sonno e a cui finora non sono cresciute le unghie
come ci si aspettava dalle unghie saprai invece quanto tu sia degno
e degli altri e quanto lo sporco sotto le unghie e sotto la lingua
sia tuo, che lo vuoi contrabbandare nel campo
della poesia
p. 73
*
e poi parlerò col sole del Signore Iddio
perchè la notte scenda insieme a una pietra
ancora più buia di quanto sia possibile in fondo
alle nostre bocche e non giunga all’improvviso
da voi e dal vostro bambino
per derubarlo della fiaba
anche se non conosco il suo nome
io invece mi chiamo Dycki
p. 76
*
ogni aggressione di mio padre
polonizzato è quel cane rabbioso scambiato
per un altro cane che mi salta addosso
di continuo anche se non gliene do motivo
fuggo ai Bagni Reali o alla Collina
dell’insurrezione di Varsavia e anche
se non mi lascio prendere (con la presente
non gliene do motivo) quel cane scambiato
per un altro fa di me quello che vuole
(mi nega un bel cognome doppio)
e seguendo le mie tracce torna a casa
perchè solo a casa lo attende una ciotola piena
*
sono venuto a dirti
che non ho un padre
e mia madre non l’ho mai
vista sana di mente
e tu mi hai accolto e ospitato
anche se venivo dal profondo
di tutte le maledizioni e mia madre
non l’ho mai vista in abiti
puliti (con tutti quei suoi
grembiulini sporchi macchiati)
e ancora maledico la sua ombra
sulla via verso la mia purezza
p. 105





