Per alcuni sono cose sentite migliaia di volte da Bagnai o da altri, ma fa piacere lo stesso leggere il Nobel Paul Krugman sintetizzare l’eurodisastro sul New York Times: il lettore Henry Tougha ci regala quindi la traduzione, grazie!
di Paul Krugman - Tim Duy chiede: quando potremo finalmente ammettere tutti quanti che l’euro è un fallimento? La risposta, naturalmente, è mai. Troppa storia, troppe dichiarazioni, troppo ego è stato investito nella moneta unica perché coloro che vi sono coinvolti possano mai ammettere di aver commesso un errore. Anche se il progetto dovesse concludersi in un totale disastro, loro insisteranno nel dire che non è l’euro che ha fatto fallire l’Europa, ma l’Europa che ha fatto fallire l’euro.
Ma mi accorgo potrebbe essere una buona idea ricapitolare la mia visione di ciò che sta veramente affliggendo l’Europa, e di cosa si potrebbe ancora fare.
Quindi, cominciamo con l’Europa com’era alla fine degli anni ’90. Era un continente con molti problemi, ma nulla che assomigliasse ad una crisi, e senza segnali di essere su un sentiero insostenibile. Poi venne l’euro.
Il primo effetto dell’euro fu un’esplosione di euroforia: improvvisamente gli investitori credettero che tutti i debiti europei fossero ugualmente sicuri. I tassi d’interesse scesero in tutta l’Europa periferica, scatenando enormi flussi di capitale verso la Spagna ed altre economie; questi flussi di capitale alimentarono enormi bolle immobiliari in molti luoghi, e in generale produssero boom economici nei paesi che ricevevano tali afflussi.
I boom, a loro volta, causarono delle differenze d’inflazione: i costi e i prezzi nei paesi dell’Europa periferica aumentarono di più che nel centro. Le economie periferiche divennero così sempre meno competitive, il che non era un problema finché le bolle gonfiate dagli afflussi resistevano, ma sarebbe diventato un problema una volta che i flussi di capitali fossero cessati.
Ed essi si arrestarono. Il risultato fu un grave tracollo nei paesi periferici, che perdettero molta della domanda interna, mentre restavano deboli sul lato della domanda estera a causa della perdita di competitività.
Ciò ha messo a nudo il problema profondo che si ha con una moneta unica: non esiste un modo semplice per un riaggiustamento nel momento in cui i propri costi si rivelano disallineati. Nel caso migliore, le economie periferiche si trovano di fronte ad un lungo periodo di forte disoccupazione mentre applicano una lenta, dolorosa, “svalutazione interna”.
Il problema fu fortemente esacerbato, tuttavia, quando la combinazione fra il tracollo delle entrate e la prospettiva di una protratta debolezza economica portò a pesanti deficit di bilancio, e preoccupazioni sulla solvibilità, perfino in paesi come la Spagna che erano entrati nella crisi con surplus di bilancio e basso debito pubblico. Ci fu panico nel mercato delle obbligazioni — e come condizione per gli aiuti, l’Europa “core” pretese rigidi programmi di austerità.
L’austerità a sua volta ha condotto a tracolli sempre più profondi nella periferia — e dato che l’austerità nell’Europa periferica non è stata bilanciata da un’espansione dell’Europa “core”, il risultato è stato un crollo dell’intera economia europea. Una conseguenza è stata che l’austerità ha fallito perfino nei suoi stessi termini: misure chiave come il rapporto debito/PIL sono peggiorate, non migliorate.
In poche parole, questa orrenda situazione ha minacciato di produrre un collasso dell’Europa, con disordini politici causati da una perdita di fiducia nella finanza, che ha causato una corsa a vendere titoli del debito pubblico, che ha causato una corsa alle banche, e così via in un circolo vizioso. Finora, comunque, la BCE è riuscita a contenere la minaccia di un collasso intervenendo, direttamente e indirettamente, a sostenere i debiti pubblici. Ma mentre il panico finanziario viene contenuto, le condizioni macroeconomiche sottostanti non fanno che peggiorare.
Cosa potrebbe fare l’Europa di diverso? Fin dall’inizio della crisi, i critici come me hanno esortato ad una risposta in tre parti. Primo, un intervento della BCE per stabilizzare i costi del debito. Secondo, un’aggressiva politica di espansione monetaria e fiscale nell’Europa “core”, per facilitare il processo di aggiustamento interno. Terzo, un’attenuazione dell’austerità nella periferia — cioè non zero austerità, ma una riduzione, in modo da ridurre i costi umani. Alla fine siamo arrivati ad avere, più o meno, la parte 1 — ma proprio niente delle parti 2 e 3.
I funzionari europei rimangono nella loro profonda negazione delle ragioni fondamentali di questa situazione. Continuano a definire il problema come un fatto di dissolutezza fiscale, il che è solamente una parte della storia per la Grecia, e non c’entra nulla altrove. Continuano a dichiarare il successo dell’austerità e della svalutazione interna, usando qualsiasi scusa a disposizione: un aumento spurio nella misura della produttività in Irlanda diventa un’evidenza che la svalutazione interna sta funzionando, un declino nei rendimenti del debito dovuto all’intervento della BCE diventa una giustificazione dell’austerità.
Quindi ecco il punto in cui siamo. Ed è difficile immaginarsi un lieto fine.
Guest post: Voci dall’estero
FONTE: VincitorieVinti
Magazine Attualità
Per alcuni sono cose sentite migliaia di volte da Bagnai o da altri, ma fa piacere lo stesso leggere il Nobel Paul Krugman sintetizzare l’eurodisastro sul New York Times: il lettore Henry Tougha ci regala quindi la traduzione, grazie!
di Paul Krugman - Tim Duy chiede: quando potremo finalmente ammettere tutti quanti che l’euro è un fallimento? La risposta, naturalmente, è mai. Troppa storia, troppe dichiarazioni, troppo ego è stato investito nella moneta unica perché coloro che vi sono coinvolti possano mai ammettere di aver commesso un errore. Anche se il progetto dovesse concludersi in un totale disastro, loro insisteranno nel dire che non è l’euro che ha fatto fallire l’Europa, ma l’Europa che ha fatto fallire l’euro.
Ma mi accorgo potrebbe essere una buona idea ricapitolare la mia visione di ciò che sta veramente affliggendo l’Europa, e di cosa si potrebbe ancora fare.
Quindi, cominciamo con l’Europa com’era alla fine degli anni ’90. Era un continente con molti problemi, ma nulla che assomigliasse ad una crisi, e senza segnali di essere su un sentiero insostenibile. Poi venne l’euro.
Il primo effetto dell’euro fu un’esplosione di euroforia: improvvisamente gli investitori credettero che tutti i debiti europei fossero ugualmente sicuri. I tassi d’interesse scesero in tutta l’Europa periferica, scatenando enormi flussi di capitale verso la Spagna ed altre economie; questi flussi di capitale alimentarono enormi bolle immobiliari in molti luoghi, e in generale produssero boom economici nei paesi che ricevevano tali afflussi.
I boom, a loro volta, causarono delle differenze d’inflazione: i costi e i prezzi nei paesi dell’Europa periferica aumentarono di più che nel centro. Le economie periferiche divennero così sempre meno competitive, il che non era un problema finché le bolle gonfiate dagli afflussi resistevano, ma sarebbe diventato un problema una volta che i flussi di capitali fossero cessati.
Ed essi si arrestarono. Il risultato fu un grave tracollo nei paesi periferici, che perdettero molta della domanda interna, mentre restavano deboli sul lato della domanda estera a causa della perdita di competitività.
Ciò ha messo a nudo il problema profondo che si ha con una moneta unica: non esiste un modo semplice per un riaggiustamento nel momento in cui i propri costi si rivelano disallineati. Nel caso migliore, le economie periferiche si trovano di fronte ad un lungo periodo di forte disoccupazione mentre applicano una lenta, dolorosa, “svalutazione interna”.
Il problema fu fortemente esacerbato, tuttavia, quando la combinazione fra il tracollo delle entrate e la prospettiva di una protratta debolezza economica portò a pesanti deficit di bilancio, e preoccupazioni sulla solvibilità, perfino in paesi come la Spagna che erano entrati nella crisi con surplus di bilancio e basso debito pubblico. Ci fu panico nel mercato delle obbligazioni — e come condizione per gli aiuti, l’Europa “core” pretese rigidi programmi di austerità.
L’austerità a sua volta ha condotto a tracolli sempre più profondi nella periferia — e dato che l’austerità nell’Europa periferica non è stata bilanciata da un’espansione dell’Europa “core”, il risultato è stato un crollo dell’intera economia europea. Una conseguenza è stata che l’austerità ha fallito perfino nei suoi stessi termini: misure chiave come il rapporto debito/PIL sono peggiorate, non migliorate.
In poche parole, questa orrenda situazione ha minacciato di produrre un collasso dell’Europa, con disordini politici causati da una perdita di fiducia nella finanza, che ha causato una corsa a vendere titoli del debito pubblico, che ha causato una corsa alle banche, e così via in un circolo vizioso. Finora, comunque, la BCE è riuscita a contenere la minaccia di un collasso intervenendo, direttamente e indirettamente, a sostenere i debiti pubblici. Ma mentre il panico finanziario viene contenuto, le condizioni macroeconomiche sottostanti non fanno che peggiorare.
Cosa potrebbe fare l’Europa di diverso? Fin dall’inizio della crisi, i critici come me hanno esortato ad una risposta in tre parti. Primo, un intervento della BCE per stabilizzare i costi del debito. Secondo, un’aggressiva politica di espansione monetaria e fiscale nell’Europa “core”, per facilitare il processo di aggiustamento interno. Terzo, un’attenuazione dell’austerità nella periferia — cioè non zero austerità, ma una riduzione, in modo da ridurre i costi umani. Alla fine siamo arrivati ad avere, più o meno, la parte 1 — ma proprio niente delle parti 2 e 3.
I funzionari europei rimangono nella loro profonda negazione delle ragioni fondamentali di questa situazione. Continuano a definire il problema come un fatto di dissolutezza fiscale, il che è solamente una parte della storia per la Grecia, e non c’entra nulla altrove. Continuano a dichiarare il successo dell’austerità e della svalutazione interna, usando qualsiasi scusa a disposizione: un aumento spurio nella misura della produttività in Irlanda diventa un’evidenza che la svalutazione interna sta funzionando, un declino nei rendimenti del debito dovuto all’intervento della BCE diventa una giustificazione dell’austerità.
Quindi ecco il punto in cui siamo. Ed è difficile immaginarsi un lieto fine.
Guest post: Voci dall’estero
FONTE: VincitorieVinti
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