19 LUGLIO – La cronaca della crisi finanziaria somiglia sempre più a una soap opera dai toni tragicomici, dove le puntate – che ormai si avviano verso la trentina – sono costituite da numerosi e vani vertici fra burocrati europei e capi di Stato. I media, da parte loro, tutte le settimane annunciano queste riunioni fra alti papaveri come appuntamenti fondamentali col destino, salvo dimenticarsi dell’esito inconcludente di quelle precedenti. Anche gli appuntamenti elettorali vengono circondati di grandi attese, ma, non essendo risolutori, hanno l’unica efficacia di rassicurare le Borse per un breve periodo, come con l’ultima tornata in Grecia. I toni celebrativi, poi, si sprecano qualora la montagna riesca a partorire un qualche topolino, cioè una qualsiasi formula qualificata come rimedio alla crisi economica e finanziaria, anche se in realtà quella ricetta ha effetti controproducenti.
Senza addentrarci troppo nei fattori scatenanti della crisi, l’attuale situazione europea è dovuta ad una crisi di fiducia nel debito pubblico dell’Eurozona, considerato troppo rischioso per non richiedere in contropartita interessi più vantaggiosi per i finanziatori privati. L’introduzione dell’Euro, in passato, ha consentito a molti Paesi dalle finanze allegre di finanziare un debito in crescita a tassi vantaggiosi, ma non è stata utilizzata come auspicato per risollevare le sorti di un’economia debole e per ristrutturare una spesa pubblica improduttiva. Questa situazione di debolezza ha colpito poi tutti i Paesi dell’Unione, anche chi pensava di esserne al riparo come la Germania. I legami ormai stretti con l’Euro comportano, infatti, danni legati alla crisi economica anche per lo stesso Paese governato da Angela Merkel, in quanto le esportazioni verso l’area Ue sono diminuite di oltre il 20% in questi ultimi anni, dopo essere fortemente aumentate dal 2002 inavanti: questo obbliga la stessa Germania a cercare di trovare rimedio a una crisi che dapprima non aveva interesse a risolvere, tanto da decidersi ad adottare misure di particolare forza, oltre a chiederne di micidiali ai Paesi maggiormente sorvegliati, i famigerati Pigs (Portogallo-Irlanda-Grecia-Spagna), cui alcuni aggiungono un’altra I per l’Italia. Tardano ad arrivare anche le necessarie riforme della finanza, che deve essere riagganciata all’economia reale e limitata quanto a forme speculative che danneggiano la stabilità economica, come i derivati; ma tutti sanno quanto grandi siano gli ostacoli a livello globale che restano sulla strada di queste riforme, pure necessarie per evitare il ripetersi delle dinamiche che hanno scatenato la crisi finanziaria.
Peccato che la cura sembri più idonea ad ammazzare il malato che a curarlo. Infatti, l’economia degli Stati membri dell’Ue non può migliorare soltanto col rigore rispetto alla spesa pubblica, che è soltanto una precondizione, ma allo scopo occorrono misure per la crescita del PIL che vanno ben oltre la mera prospettiva contabile. I tagli imposti a Paesi come la Grecia non aiuteranno a risollevarla perché sono insostenibili e andranno necessariamente ridotti quando la tensione sociale da essi accesa esploderà. Lo stesso debito pubblico difficilmente potrà essere ridotto come da previsione se l’economia non ripartirà, perché anche ad aumentare le tasse fino al cielo, se manca il presupposto per pagarle, cioè la produzione di un reddito o il possesso di un patrimonio, le entrate fiscali sono destinate comunque a diminuire e per recuperarle si potrà solo alzare ancora le imposte, con tanti saluti ad imprese e investimenti. Ma fino a quando? Inizia solo adesso a formarsi la consapevolezza di questo limite, come è avvenuto per l’Iva, il cui aumento di due punti percentuali non è stato cancellato dal governo ma solo rimandato di nove mesi. Resta però la già elevata pressione fiscale, dai forti effetti depressivi e che genera un’evasione incomprimibile, nonostante i ripetuti annunci di una lotta impossibile da attuare salvo provocare un terremoto economico nel Paese.
Le soluzioni in realtà non sono semplici da individuare né da applicare, altrimenti si sarebbe già cercato di percorrerle. L’approccio europeo è rimasto quello di sempre: dirigista, centralista, fautore di vincoli e procedure. L’unica prospettiva che viene ventilata è quella di una maggiore unione fiscale e politica, una sorta di gabbia unica per tutti i popoli europei, i quali non avranno probabilmente nessuna possibilità di esprimere la propria opinione su una decisione di capitale importanza come questa, come del resto in ambito europeo, cosiddetto democratico, è accaduto solo in ben pochi casi. E’ interessante come una più forte unione fra gli Stati europei, dopo essere stata moltiplicatore della crisi del debito pubblico, ora sia venduta come la soluzione del medesimo problema.
Resta semmai da applicare la ricetta opposta: più iniziativa economica privata, taglio radicale delle tasse oltre che della spesa pubblica, riduzione e semplificazione della burocrazia in tutti i campi, trasparenza degli atti della pubblica amministrazione, giustizia più rapida ed efficace; tutte necessità che attendono risposte da decenni, in particolare in Italia, dove l’economia nel nuovo millennio non è più in grado di crescere. Il dramma è che non sembra esserci nessuna coalizione politica in grado di perseguire questo tipo di riforme, affezionati come si è allo status quo e comunque frenati da mille ostacoli e interessi contrapposti. Questa è la ragione della famosa antipolitica: è la mancanza di un orizzonte politico credibile, una situazione in cui l’alternanza fra fronti politici contrapposti appare inutile a risolvere i problemi, anzi dannosa. Ma un simile sentimento contribuisce a generare il deserto politico, non ad imboccare la via giusta, oppure alternativamente a far nascere un profluvio di nuovi partiti che non potranno poi governare con una maggioranza solida.
Ci si è illusi invano che si potesse mettere mano alle riforme più pressanti sostituendo la bagarre politica con un governo di cosiddetti tecnici, come se il governo di un Paese si potesse insegnare nelle università; ma alla fine ci si è ritrovati con ministeri in mano a dirigenti pubblici sempre sensibili alla stessa campana di prima, cioè quella dello Stato-mamma, che da un lato spreme le tasche del cittadino e dall’altro lo culla e deresponsabilizza con la promessa di infiniti servizi gratuiti, con la leggera differenza che quegli stessi servizi tende a garantirli sempre meno. Se non altro l’Europa ha risvegliato il Paese dal torpore e gli ha posto forti interrogativi sul modo in cui la finanza pubblica veniva gestita, ma una via di salvezza per l’economia europea, probabilmente basata su un’economia reale più liberista e maggiori vincoli sulla finanza, non sembra essere ancora in vista. Tolto qualche guru che invita a sperare in una strampalata “decrescita felice”, lo spettro di una disoccupazione in crescita e di una diminuzione sensibile del tenore di vita medio dei cittadini europei non sembra scomparire nel tempo che scorre fra un’elezione e un’altra, un vertice e un altro. Eppure in molti si accorgono che le politiche avviate in questi mesi non potranno migliorare la situazione, semmai peggiorarla. L’Europa e l’Italia aspettano ancora una politica economica nuova, un Godot che soltanto loro possono materializzare.
Enrico Vanzo