La flessibilizzazione del mercato del lavoro, che l’Europa nuovamente raccomanda, è stata una delle cause del declino della produttività e delle retribuzioni reali dell’ultimo ventennio
di Paolo Pini da Sbilanciamoci.info
La Commissione Europea ha raccomandato al Consiglio dell’Unione Europea, che l’ha fatta propria, di abrogare la procedura di infrazione per disavanzo di bilancio eccessivo nei confronti dell’Italia, aperta nel 2009 (link).
Un buon segnale, qualche flessibilità nel bilancio viene concessa, per il 2014, ma è poca cosa per affrontare gli effetti della crisi e dell’austerità.
Ci ha inviato anche le solite raccomandazioni, ovvero condizioni che pone l’Europa: ci dice cosa dobbiamo fare per recuperare competitività e crescita, oltre che per stare entro i parametri del Patto di Stabilità e Crescita da cui non si deve transire. Alcune sono condivisibili (giustizia civile, legalità, riforma della Pa, tassazione, qualità della spesa, sistema bancario, sistema di istruzione, reti digitali, costo dell’energia, infrastrutture, ecc.), altre molto meno (livello della spesa pubblica, deficit, debito), altre ancora assolutamente no.
Fra quelle non condivisibili vi sono le solite riforme strutturali, declinate sempre sul lavoro, che deve essere reso ancora più flessibile nel mercato, e che deve essere “governato” quasi nulla dai contratti nazionali e molto invece dai contratti aziendali, per rendere i salari nominali in linea con la produttività e le prestazioni individuali del lavoro.
È sempre in auge la questione della flessibilità di mercato, piuttosto che quella innovativa interna all’impresa. È dagli anni novanta che questa politica viene attuata. Ora è il turno anche della riforma Fornero che deve essere riformata, nelle modalità delle entrate, riducendo i vincoli introdotti sui contratti a termine e per favorire in tempi congiunturali negativi forme di lavoro intermittenti e senza causali nei contratti. Confindustria insiste nel chiedere l’eliminazione di tutte quelle norme che avrebbero reso impossibile la gestione della flessibilità vera (Alberto Orioli su Il Sole 24 Ore del 21 maggio 2013).
Ma la flessibilizzazione e deregolamentazione del mercato del lavoro avviato a metà anni ’90 è ciò che ha accompagnato tutta la fase del declino italiano, del declino della produttività del lavoro e dei salari in particolare. Si potrebbe anche sostenere che è stata una delle cause di questo declino.
Salari e produttività: un solo declino
Gli effetti fallimentari di queste politiche è attestato dal declino della produttività e delle retribuzioni reali che è proseguito con vigore negli anni dell’Euro, ma che risale a prima del 2000. Deve essere datato almeno a metà del decennio precedente. Il decennio dell’Euro ha solo acuito i mali che preesistevano, ed è stato un decennio perso per il cambiamento.
Come mostrano anche i grafici che seguono, il fallimento risulta evidente dai seguenti fenomeni, qui sintetizzati.
1) La quota del reddito di lavoro sul reddito prodotto ha perso 10 punti percentuali dal 1990 sino a giungere all’inizio della crisi recessiva del 2008, per recuperarne 2 sino al 2012.
2) La crescita della produttività del lavoro per ora lavorata è stata declinante sino a divenire nulla negli anni pre-depressione e negativa negli anni della depressione.
3) La crescita dei salari nominali ha seguito una analoga tendenza, meno ciclica della produttività, per assestarsi attorno al 2% per tutti gli anni dell’Euro, dopo un forte declino nella prima parte degli anni ’90.
4) Il tasso di inflazione, dopo una forte riduzione a seguito di quanto previsto dall’Accordo del 1993 (inflazione programmata) che ha congelato la dinamica salariale nominale, si è mantenuto più vicino al 3% che al 2% annuale, con alcune forti oscillazione negli anni della depressione, e nel 2012 fa segnare un ragguardevole 3,3% nonostante lo stato di crisi che perdura dal 2008 e le politiche di austerità (manovre restrittive con tagli alla spesa pubblica ed aumento delle tasse) che durano da vari anni, con avanzi primari sempre più significativi.
5) Il rallentamento modesto dell’inflazione, in presenza di una dinamica delle retribuzioni nominali ancora più contenuta e di una crescita della produttività modestissima ed in declino, ha penalizzato le retribuzioni reali del lavoro, che sono cresciute assai modestamente tanto da consentire un allargamento del gap tra produttività del lavoro e salari reali: ponendo pari a 100 entrambi i livelli nel 1990, ora presentano un gap di 15 punti; il gap è cresciuto significativamente negli anni ’90, e poi è declinato leggermente negli anni dell’Euro, dato il declino della produttività del lavoro, per crescere di nuovo negli anni della depressione.
6) Il legame che si intendeva costruire tra dinamica della produttività e dinamiche delle retribuzioni reali, un legame virtuoso e non unidirezionale (ovvero non solo distributivo dalla produttività ai salari reali), non trova riscontro, essendo le due variabili dinamiche estremamente non correlate nel corso dei venti anni considerati.
Mentre in Europa nel 1997 veniva data diffusione da parte della Commissione Europea al Green Paper [1] sull’innovazione nei luoghi di lavoro, in Italia si dava inizio a quella che altri avranno poi modo di definire la “deriva del diritto del lavoro” (Umberto Romagnoli, 2013 [2]). Ovvero, iniziava quel percorso tutto centrato sulla flessibilità del mercato del lavoro, via le “riforme al margine”, con l’intento di creare un dual labour market. Si voleva anche ridurre la disoccupazione giovanile, che ora è al 40% circa mentre era al 30% agli inizi degli anni ’90, aumentata quindi di 1/3.
Le vie della flessibilità del lavoro e la contrattazione
Invece di cercare di riformare le relazioni industriali e puntare sull’innovazione dei luoghi di lavoro, e dell’organizzazione della produzione nell’impresa, cercando di valorizzare e rendere cogenti i due livelli contrattuali che il Protocollo del 1993 aveva concepito, si sono indirizzate tutte le energie e le risorse, nella politica di flessibilizzazione e deregolamentazione del mercato del lavoro, facendo crescere l’occupazione temporanea e a basse tutele negli anni dell’Euro mediante contratti di lavoro di seconda, terza, o quarta generazione, fino a giungere alle oltre 40 forme contrattuali atipiche. Questa politica di flessibilità del lavoro di mercato, contrapposta a quella innovativa interna all’impresa, non ha poi trovato alcun riscontro con il recupero della produttività, cui peraltro pure ambiva. Anzi, come abbiamo mostrato su Sbilanciamoci.info e su Keynes blog, con la riduzione delle tutele del lavoro, via flessibilità di mercato, la crescita della produttività diminuisce invece di aumentare (link). Nel frattempo è cresciuto il numero dei lavoratori atipici, stimati dall’Istat (2013), nel suo ultimo Rapporto, in ben 5 milioni circa, pari al 20% degli occupati, che nel 60% dei casi riguarda le fasce più giovani della popolazione.
Inoltre, il riequilibrio tra contrattazione decentrata e contrattazione nazionale, a sfavore della seconda piuttosto che a favore della prima, sostenuto anche dalle procedure della contrattazione in deroga introdotta con sempre maggiore frequenza, a cui si aggiunge dal 2011, la contrattazione di prossimità in deroga addirittura dalla legislazione superiore (art.8 della legge 148 del 2011), a cui ancora non possiamo non considerare anche la fiscalità di vantaggio per il secondo livello (introdotto ed applicato in ritardo) in vigore sin dal 1997 con modalità e risorse alterne, non hanno peraltro contribuito molto alla diffusione della contrattazione di secondo livello. Stime fanno ritenere una copertura che non supera il 30% delle imprese ed il 25% degli addetti, e non è in crescita.
A fronte di un tasso così contenuto della contrattazione decentrata, in un tessuto produttivo caratterizzato dalla stragrande maggioranza di piccole e piccolissime imprese, è probabilmente pura utopia ritenere che questo livello negoziale possa costituire la leva unica, ancorché favorita dalla fiscalità, per realizzare il legame virtuoso tra retribuzioni e produttività, nonché introdurre forme partecipative foriere di innovazione dei luoghi di lavoro, relegando così il contratto nazionale di lavoro a mero quadro normativo circa le tutele del lavoro.
Quindi varie ragioni suggeriscono un cambio di rotta nelle strategie.
Occorre riconsiderare seriamente il ruolo dei contratti nazionali, anche con la loro semplificazione ed unificazione, come strumenti di negoziazione delle retribuzioni e di definizione di obiettivi di produttività. Il sindacato ha sempre negoziato i salari con il contratto nazionale, e nella negoziazione di tale voce retributiva teneva presente obiettivi di produttività che dovevano essere raggiunti o che vi era l’aspettativa che venissero raggiunti, oltre che la produttività già acquisita.
Quello che occorre fare è l’opposto di quello che le Raccomandazioni dell’Europa dell’«austerità espansiva» chiede in tema di flessibilità del lavoro.
[1] EC (1997), Partnership for a new organization of work, Green Paper, EC, Brussels.
[2] Romagnoli U. (2013), La deriva del diritto del lavoro, in Lavoro e Diritto, vol.27, n.1, pp.3-22.
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