Nella civilissima Olanda, il Rapporto Remmelink, primo rapporto ufficiale commissionato dal Governo sulla “dolce morte”, ha rivelato che almeno un terzo dei 5.000 pazienti ai quali è stata somministrata la “dolce morte”, non aveva dato alcun esplicito consenso e ben 400 ammalati non avevano neppure accennato alla questione con il loro medico personale. E l’autodeterminazione dov’è finita?
Sempre in Olanda, la legalizzazione della “dolce morte” ha scatenato una vera e propria cultura della morte. Ad esempio nel St Pieters en Bloklands, un centro anziani di Amerfott, si è deliberatamente deciso di non rianimare i pazienti al di sopra di 70 anni. Un movimento, chiamato “Per volontà propria“, si batte per ottenere il “suicidio assistito” per quanti, superati i 70 anni, si sentissero “stanchi di vivere”.
Nella vicina Svizzera, dove il suicidio assistito è legale e dove, giusto poche settimane fa, Andrè Rieder, uomo di 56 anni afflitto da sindrome depressiva, è stato ucciso e pure ripreso, mentre spirava, per un documentario in programma alla televisione svizzera tedesca. Morte in diretta per i depressi, insomma. Sono anni che comunque si recano in Svizzera persone che, pur non essendo affatto incurabili, vengono aiutate a morire. Un paio di anni fa il quotidiano The Guardian ottenne un elenco di 114 persone inglesi recatesi in terra elvetica per morire: tra queste, alcune erano malate all’addome, altre al fegato, altre ancora di artrite. Di malati terminali, insomma, neppure l’ombra. E il “caso limite”, dov’è finito?
La tendenza è talmente grave e crescente che Lucien Israël, medico e luminare francese non credente, osservando gli scenari contemporanei, pochi anni fa, nel corso di un’intervista, ebbe ad avvertire: «Se questa tendenza continua […] gli anziani dovranno difendersi dai giovani. Ma non solo: dovranno anche difendersi da medici e infermieri. Forse si comporteranno come gli anziani olandesi che, oggi, vengono a cercare protezione in Francia e in Italia. Può darsi che un giorno i nostri anziani saranno costretti a cercare rifugio nel Benin» (Contro l’eutanasia, Lindau, Torino 2007, p.86).