Le riflessioni sul fine vita sin qui pubblicate hanno messo in luce come una legge sulle direttive anticipate di fine vita non sia una legge pro o contro l’eutanasia, ma riguardi la facoltà del paziente di sospendere, o non intraprendere, i trattamenti. La distinzione non è di scarsa rilevanza. Gran parte delle Chiese che appartengono al protestantesimo storico considerano pienamente lecito il rifiuto delle cure ed evitano di introdurre nel dibattito nozioni, scivolose e indeterminate, come quella
di eutanasia passiva, cara alla teologia morale cattolico-romana, intesa come sospensione ingiustificata di un trattamento. Al contrario, esse perlopiù rifiutano l’eutanasia e il suicidio assistito che, a differenza della sedazione palliativa, contribuiscono ad accelerare il decesso del paziente. Emblematico, a questo proposito, il già citato Documento del Consiglio della Comunione di chiese protestanti in Europa, dal titolo Un tempo per vivere e un tempo per morire, recentemente pubblicato da Claudiana.
Nel mio articolo intendo affrontare tre questioni. La prima: le ragioni che motivano tale rifiuto sono convincenti? La seconda: all’interno della tradizione di etica medica protestante del secolo scorso esistono posizioni differenti, che accettano l’eutanasia o, quantomeno, pongono le basi concettuali per una sua accettazione? La terza: l’accettazione della liceità dell’eutanasia significherebbe necessariamente un appiattimento delle posizioni delle Chiese protestanti sulle tesi dell’etica secolare, accusa che spesso viene mossa alla Commissione bioetica valdese, sia da parte cattolico-romana sia da parte del fondamentalismo protestante? Le ragioni principali dei critici dell’eutanasia sono sostanzialmente di due tipi. La prima è una ragione di tipo filosofico, e riguarda l’effettiva autonomia degli individui che chiedono di morire. La volontà dei malati terminali, dei pazienti affetti da gravi sindromi depressive e dei morenti è spesso soggetta a fluttuazioni e condizionata da fattori ambientali (assistenza inadeguata, mancanza di accompagnamento) e socio-culturali. Faccio tuttavia notare che, se ci si limita a riconoscere che il soggetto che desidera l’eutanasia raramente è autonomo, ci troveremmo di fronte a una forma di paternalismo soft, come definito nel testo sacro della bioetica secolare anglossasone (il celeberrimo Principi di etica biomedica di T. L. Beauchamp e J. F. Childress), che non contesta l’autonomia in via di principio, ma si preoccupa piuttosto che le condizioni dell’autonomia siano soddisfatte e che conduce ad ammettere che, qualora lo fossero, l’atto eutanasico sarebbe lecito. In realtà, spesso il rifiuto dell’eutanasia avviene sulla base di un argomento di tipo differente, che si radica nella storia e nella cultura di una specifica tradizione morale: l’idea secondo cui la libertà cristiana non va pensata come assoluta autodeterminazione, ma come libertà finita, che si realizza come responsabilità di fronte a Dio e al dono della vita ricevuta. In questo senso, la scelta di porre fine attivamente alla propria vita non può mai essere una scelta etica responsabile, ma equivale in sostanza a un atto intrinsecamente immorale, se non peccaminoso, frutto dell’arbitrio di un soggetto che si autocomprende come padrone assoluto della propria esistenza. Tale argomento va tuttavia incontro a due serie obiezioni. La prima riguarda il carattere particolaristico delle tesi qui proposte e la loro incompatibilità con un principio fondamentale di laicità: non si capisce per quale motivo l’eutanasia andrebbe proibita anche per i non credenti e quali siano le ragioni che ne vietano la legalizzazione in una società pluralista. La seconda obiezione riguarda invece la coerenza interna della tesi: non si capisce per quale motivo sia sempre lecito sospendere o non intraprendere un trattamento atto a prolungare la vita, anche nel caso degli stati vegetativi, mentre sia sempre illecita l’eutanasia. La dimostrazione sembra affetta da una lacuna: l’inadeguata, perché non sufficientemente approfondita, trattazione della (supposta) differenza etica tra uccidere e lasciar morire. Tale distinzione, che molta parte dell’etica secolare rifiuterebbe, è molto problematica, ma è cruciale in una prospettiva protestante, in cui la questione essenziale non è, come nell’etica cattolico-romana, chi agisce (Dio, attraverso la natura, o l’uomo attraverso un atto di arbitrio soggettivo), quanto, piuttosto, come si agisce. Qualora la differenza tra azione e omissione non venga dimostrata convincentemente, ci si contraddice: non è chiaro per quale motivo un’azione omissiva sia moralmente differente da un atto umano, responsabilmente scelto, che procura la morte di un paziente che desidera, altrettanto responsabilmente, di morire. Non esistono forse anche atti omissivi che, in determinati casi, possono essere equiparati a omicidio?Veniamo ora alla seconda questione. A differenza delle Chiese, la tradizione teologica e bioetica protestante non è storicamente così univoca nella condanna, se non dell’eutanasia, quantomeno del suicidio. Basti ricordare, a questo proposito, le riflessioni di Karl Barth (Dogmatica III/4, Cap. 12) e di Dietrich Bonhoeffer (Etica), i quali, pur partendo da presupposti diversi, sembrano concordare sul fatto che il suicidio non è un peccato contro la morale, ma semmai un atto di mancanza di fede.
In secondo luogo, entrambi ammettono la possibilità di un caso-limite, vale a dire la possibilità che non ogni uccisione di sé sia un suicidio, ovvero un atto di disubbidienza al comandamento divino, ma possa rispondere, in determinate circostanze, a un’obbedienza superiore. Ambedue, infine, sottolineano che, dal punto di vista umano, è impossibile appurare quando, in una specifica situazione, la scelta di morire sia riprovevole o eticamente accettabile. Queste posizioni sfumate e per nulla intransigenti si sono tradotte, nelle riflessioni dei due più importanti teologi protestanti del dibattito bioetico delle origini, l’episcopaliano Joseph Fletcher (Morals and Medicine, 1954) e il metodista Paul Ramsey (The Patient as Person, 1970), in una strenua difesa della liceità dell’eutanasia e del suicidio assistito, nel primo caso, e nell’idea dell’ammissibilità di tale pratica in determinate circostanze, nel secondo.
E giungiamo in tal modo alla terza questione. Che cosa distingue l’etica protestante dall’etica secolare? Il modo in cui vengono pensati il fondamento etico e quello giuridico della liceità dell’eutanasia. Se il rifiuto dei principi assoluti e l’attenzione al contesto rappresentano due significative differenze dell’etica protestante rispetto a quella cattolico-romana, va chiaramente detto che il fondamento della liceità della scelta eutanasica non può, in ottica cristiana, essere rintracciato esclusivamente nel principio assoluto dell’autonomia individuale, comunque essa venga intesa. L’intento fondamentale delle Chiese cristiane deve rimanere quello di offrire sostegno e accompagnamento ai morenti e di battersi per un uso adeguato e moderno delle cure palliative.
Questo non vale in assoluto per l’etica secolare che, quantomeno nelle sue espressioni più radicali, pensa la scelta eutanasica come suprema affermazione della soggettività individuale. La tesi secondo cui è necessario ridurre al minimo la domanda di eutanasia non è universalmente condivisa, dal momento che esistono coloro che auspicano, e riterrebbero desiderabile, vivere in una società in cui ciascuno sceglie il modo e il momento della propria morte. Da un punto di vista cristiano, al contrario, alla rivendicazione del legittimo, ma non assoluto, principio di autodeterminazione, occorre affiancare l’idea della riduzione della sofferenza. Di qui un principio di prudenza che, in nome del rispetto della dignità della vita umana individuale, richieda di stabilire criteri medici che limitino l’accesso ai programmi di eutanasia e suicidio assistito ai casi in cui la sofferenza non è più alleviabile con i mezzi a disposizione della scienza, in cui il processo del morire è ormai irreversibile e il momento del decesso imminente.
Conformemente alla migliore tradizione del protestantesimo storico, insomma, occorre sfuggire alla tentazione di trovare un principio ultimo, da cui ogni cosa discende, e cercare di attuare un bilanciamento tra principi diversi. L’eutanasia e il suicidio assistito non sono lo sterco del diavolo, né un modo per vincere la morte, ma un tentativo, fragile e problematico, di ridurre, in presenza di situazioni clinicamente definite e nel rispetto della coscienza individuale, la sofferenza di molte persone, siano esse credenti o non credenti. Luca Savarino in “Riforma” del 23 luglio 2013
* coordinatore della Commissione bioetica della Tavola valdese