La vera forza di un documento sta nel suo non invecchiare, nel rimanere attuale e in grado di leggere la realtà cogliendone sfumature che possono anche sembrare minori, mentre invece sono quelle decisive. Ebbene, a distanza di ormai diciotto anni dalla sua pubblicazione, avvenuta il 25 marzo 1995, l’enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II costituisce indubbiamente un documento ancora forte e profetico, capace di offrire a chiunque lo legga spunti di notevole utilità per comprendere lo spirito autentico della bioetica, vale a dire quello personalista, mirato cioè alla tutela di tutti gli esseri umani, senza distinzioni. Nell’invitare quindi tutti a leggersi questa enciclica, vediamo brevemente quali sono, a nostro avviso, i suoi dieci maggiori insegnamenti.
La vita, questione sociale di oggi
Il primo riguarda la portata non già morale bensì sociale della difesa della vita umana. Che, spiega il Santo Padre, riveste un ruolo – quanto ad urgenza – paragonabile a quella che nel passato ebbe la questione operaia: «Come un secolo fa ad essere oppressa nei suoi fondamentali diritti era la classe operaia e la Chiesa con grande coraggio ne prese le difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del lavoratore […] Ad essere calpestata nel diritto fondamentale alla vita è oggi una grande moltitudine di esseri umani deboli e indifesi, come sono, in particolare, i bambini non ancora nati» (E.V. 5). Poche parole che però sfatano già una leggenda metropolitana, vale a dire quello che la Chiesa e i cattolici abbiano a cuore solo i bambini non ancora nati: sbagliato, dice il Papa, la Chiesa ha a cuore i diritti dei più deboli, a prescindere. E se i più deboli, ieri, erano gli operai, oggi lo sono «i bambini non ancora nati». Per questo è dunque giusto occuparsi di loro: per una mera questione di giustizia.
La sfida per la vita come laica e centrale
Strettamente legato al primo, c’è poi un secondo passaggio dell’enciclica, nella quale si legge che il Vangelo della vita «ha un’eco profonda e persuasiva nel cuore di ogni persona, credente e anche non credente» e che sul riconoscimento del «valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine» si fonda «l’umana convivenza e la stessa comunità politica. (EV. 2). Anche qui grande sintesi ma, al tempo stesso, grande efficacia nell’escludere la presunta natura confessionale della battaglia per la vita dal momento – spiega Giovanni Paolo II – che al suo destino è legato il destino addirittura «l’umana convivenza». Dunque sbaglia chi da un lato si occupa di temi pur prioritari quali, per esempio, la pace fra le nazioni e la lotta alla fame nel mondo, e, d’altro lato, tace sulle minacce alla vita e sul «valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine»; sbaglia per il semplice fatto che dimentica tutta una serie di crimini ed ingiustizie a danni, per giunta, dei veri deboli di oggi che sono – lo dicevamo poc’anzi – «i bambini non ancora nati».
Le minacce alla vita si moltiplicano
Il terzo insegnamento dell’Evangelium Vitae concerne un sostanziale invito all’abbandono del buonismo affinché si possa guardare meglio in faccia la realtà di oggi, una realtà – segnala il Papa – dove si verifica «l’impressionante moltiplicarsi ed acutizzarsi delle minacce alla vita delle persone e dei popoli, soprattutto quando essa è debole e indifesa» (E.V. 3). In poche parole Giovanni Paolo II ci chiede di aprire gli occhi, anche se può far male. E non ce lo chiede, ovviamente, se non per renderci compiutamente consapevoli dei tempi drammatici in cui viviamo; tempi che, fino all’avvento della crisi economica, in superficie erano di compiaciuto e diffuso ottimismo ma in realtà già nascondevano qualcosa di brutto, ovvero quell’ «impressionante moltiplicarsi ed acutizzarsi delle minacce alla vita delle persone» di cui, perfino molti cattolici, spesso non paiono consapevoli.
Il problema della libertà “assoluta”
Ma com’è possibile, ci si potrà chiedere, che proprio oggi, in anni in cui non si fa che parlare di diritti umani e di democrazia, si sia verificano detto «impressionante moltiplicarsi ed acutizzarsi delle minacce alla vita delle persone»? Sembra un paradosso. In realtà non lo è, spiega Giovanni Paolo II, perché nel mentre «con le nuove prospettive aperte dal progresso scientifico e tecnologico nascono nuove forme di attentati alla dignità dell’essere umano […] si delinea e consolida una nuova situazione culturale» con «larghi strati dell’opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale» (E.V. 3). Qui l’Evangelium Vitae inizia a scendere al cuore del problema, che sta nel drammatico rovesciamento valoriale che si è verificato, ossia quello «della libertà individuale» che sopravanza il principio della dignità umana e diventa criterio unico per la valutazione soggettiva di cosa sia bene e di cosa sia male.
Permissitivà etica uguale disinteresse morale
Dopo aver denunciato la dittatura libertaria, fondata sull’«assoluta libertà» e legittimata dalla «nuova situazione culturale», Giovanni Paolo II effettua un’altra importante considerazione a proposito dello scenario attuale nel quale, scrive, vi sono «tendenze di deresponsabilizzazione dell’uomo verso il suo simile, di cui sono sintomi, tra l’altro, il venir meno della solidarietà verso i membri più deboli della società — quali gli anziani, gli ammalati, gli immigrati, i bambini — e l’indifferenza che spesso si registra nei rapporti tra i popoli anche quando sono in gioco valori fondamentali come la sussistenza, la libertà e la pace» (E.V. 8). Qui il Papa, se ci facciamo caso, effettua una sottolineatura decisiva: collega la permissività etica al disinteresse morale, «alla deresponsabilizzazione dell’uomo verso il suo simile» Non è vero, cioè, che la «nuova situazione culturale» è a favore della libertà bensì, semmai, del disinteresse. Detto in altri termini, se rifiuto di proporre all’altro il Bene, non è la sua libertà che premio bensì il mio egoismo. Il “ciascuno faccia ciò che vuole”, infatti, non è padre dell’emancipazione ma figlio dell’individualismo. La permissività etica nasconde quel disinteresse morale senza il quale la «deresponsabilizzazione dell’uomo verso il suo simile» non sarebbe possibile.
Dal delitto al diritto: cos’è la “cultura di morte”
Tornando al testo, diamo nuovamente la parola al Papa, che scrive: «La nostra attenzione intende concentrarsi, in particolare, su un genere di attentati, concernenti la vita nascente e terminale, che presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di «delitto» e ad assumere paradossalmente quello del «diritto», al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l’intervento gratuito degli stessi operatori sanitari. Tali attentati colpiscono la vita umana in situazioni di massima precarietà, quando è priva di ogni capacità di difesa. Ancora più grave è il fatto che essi, in larga parte, sono consumati proprio all’interno e ad opera di quella famiglia che costitutivamente è invece chiamata ad essere «santuario della vita». Dopo aver chiarito che la mentalità libertaria è in realtà mentalità indifferente, il Santo Padre porta quindi qui a riflettere sulle nefaste conseguenze che questo mutamento ha portato, vale a dire il passaggio – per degli attentanti «concernenti la vita nascente e terminale» - «a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di «delitto» e ad assumere paradossalmente quello del «diritto» (E.V. 11).
No alla contraccezione
Altro passaggio chiave dell’enciclica è il netto ed argomentato rifiuto della contraccezione, interpretata come espressione, al parti dell’abortismo, di una stessa «cultura di morte». «Si afferma frequentemente – osserva Giovanni Paolo II – che la contraccezione, resa sicura e accessibile a tutti, è il rimedio più efficace contro l’aborto. Si accusa poi la Chiesa cattolica di favorire di fatto l’aborto perché continua ostinatamente a insegnare l’illiceità morale della contraccezione. L’obiezione, a ben guardare, si rivela speciosa. Può essere, infatti, che molti ricorrano ai contraccettivi anche nell’intento di evitare successivamente la tentazione dell’aborto. Ma i disvalori insiti nella «mentalità contraccettiva» — ben diversa dall’esercizio responsabile della paternità e maternità, attuato nel rispetto della piena verità dell’atto coniugale — sono tali da rendere più forte proprio questa tentazione, di fronte all’eventuale concepimento di una vita non desiderata. Di fatto la cultura abortista è particolarmente sviluppata proprio in ambienti che rifiutano l’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione» (E.V. 13). Ora, benché contenute in una enciclica e non in un documento scientifico, è interessante osservare come dette osservazioni abbiano una natura prettamente razionale giacché è ampiamente riscontrata, in letteratura, fra la diffusione della contraccezione e non solo in non calo degli aborti, ma persino il rischio di un loro aumento. (Cfr. Scand J Public Health (2012) 40 (1): 85-91; Contraception (2011) 83 (1): 82-87; It. J. Gynæcol. Obstet. (2009) 21 (3): 164-178).
Aborto e non “interruzione volontaria di gravidanza”
Oltre a numerosi appunti di natura morale non mancano, nell’Evangelium Vitae, segnalazioni circa l’importanza del linguaggio. Curioso, ad esempio, è osservare come nel documento si parli di aborto decine volte e mai una volta – neppure una – di “interruzione volontaria di gravidanza”. Un caso? Nient’affatto, bensì un salutare esercizio di igiene del linguaggio da attuarsi in relazione alla possibilità di esprimere un giudizio di verità morale scevro da condizionamenti. Scrive infatti il Beato Giovanni Paolo II: «Occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno. A tale proposito risuona categorico il rimprovero del Profeta: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre» (Is 5, 20). Proprio nel caso dell’aborto si registra la diffusione di una terminologia ambigua, come quella di «interruzione della gravidanza», che tende a nasconderne la vera natura e ad attenuarne la gravità nell’opinione pubblica. Forse questo fenomeno linguistico è esso stesso sintomo di un disagio delle coscienze. Ma nessuna parola vale a cambiare la realtà delle cose: l’aborto procurato è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita» E’ utile registrare la netta condanna che il Santo Padre effettua contro l’espressione “interruzione volontaria di gravidanza” – cui tutti, oggi, siamo sovente tentati di ricorrere - descrivendola come una sorta di paravento lessicale, di trucco per occultare «la vera natura e ad attenuarne la gravità nell’opinione pubblica» (E.V. 58). Riflettere su queste parole, ci porterebbe a prendere nuovamente e più vigorosamente coscienza della portata epocale e grandiosa della missione cui è chiamato il Popolo della Vita.
La leggenda nera della “condanna” alla donna
Sfatando lo stereotipo anticattolico che associa la condanna all’aborto alla condanna alla donna, Giovanni Paolo II ci invita poi – senza per questo negare la complicità che ovviamente anche la gestante, se consenziente, ha nella procedura di aborto procurato – a considerare il problema da una prospettiva più allargata e consapevole dell’insieme delle complicità che portano alla perdita, anzi all’eliminazione di una vita umana. «Non di rado la donna – osserva il Santo Padre - è sottoposta a pressioni talmente forti da sentirsi psicologicamente costretta a cedere all’aborto: non v’è dubbio che in questo caso la responsabilità morale grava particolarmente su quelli che direttamente o indirettamente l’hanno forzata ad abortire. Responsabili sono pure i medici e il personale sanitario, quando mettono a servizio della morte la competenza acquisita per promuovere la vita. Ma la responsabilità coinvolge anche i legislatori, che hanno promosso e approvato leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, gli amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per praticare gli aborti. Una responsabilità generale non meno grave riguarda sia quanti hanno favorito il diffondersi di una mentalità di permissivismo sessuale e disistima della maternità, sia coloro che avrebbero dovuto assicurare — e non l’hanno fatto — valide politiche familiari e sociali a sostegno delle famiglie, specialmente di quelle numerose o con particolari difficoltà economiche ed educative. Non si può infine sottovalutare la rete di complicità che si allarga fino a comprendere istituzioni internazionali, fondazioni e associazioni che si battono sistematicamente per la legalizzazione e la diffusione dell’aborto nel mondo» (E.V. 59). La rilevanza che questo passaggio assume concerne anche la dimensione politica e istituzionale dell’impegno per la vita e contro l’aborto. Infatti non possiamo in alcun modo pensare che sia casuale il fatto che il Papa, esaminando le molteplici corresponsabilità dell’aborto, chiami in causa «anche i legislatori, che hanno promosso e approvato leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, gli amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per praticare gli aborti». Per molti politici che amano proclamarsi cattolici, queste parole, dovrebbero suonare come un pesante invito a quella coerenza così spesso messa da parte. Talvolta persino da quanti, ammonisce più avanti il Papa, «partecipano attivamente alla vita ecclesiale» (E.V. 95).
L’embrione come uno di noi
Colpisce, andando avanti con la lettura dell’Evangelium Vitae, anche la sottolineatura che il Santo Padre fa – in corrispondenza della condanna dell’aborto – dell’importanza di tutelare l’embrione umano, ciascun embrione umano, come uno di noi, a tutti gli effetti: «La valutazione morale dell’aborto è da applicare anche alle recenti forme di intervento sugli embrioni umani che, pur mirando a scopi in sé legittimi, ne comportano inevitabilmente l’uccisione. È il caso della sperimentazione sugli embrioni, in crescente espansione nel campo della ricerca» (E.V. 63 ). Questa netta sottolineatura – che va ad aggiungersi alla condanna anche delle «varie tecniche di riproduzione artificiale» (E.V. 14), e che è seguita da un netto rifiuto dell’eutanasia e del suicidio assistito – rappresenta, concludendo il nostro breve percorso alla riscoperta di questa enciclica straordinaria e non di rado dimenticata, un invito a non perdere mai di vista la dignità umana una volta che è avvenuto il concepimento; non fermandoci alla mera condanna dell’aborto procurato ma tenendo d’occhio anche quelle« recenti forme di intervento sugli embrioni umani che, pur mirando a scopi in sé legittimi, ne comportano inevitabilmente l’uccisione». Questo non per pignoleria o per altro, ma per il semplice fatto che se il nascituro è uno di noi allora lo è, una volta concepito, in ogni sua fase. Non ci sono quindi distinzioni che tengano, sotto il profilo morale, se non quella fra quanti scelgono di impegnarsi concretamente per difesa incondizionata della vita umana e quanti – magari gli stessi che poi amano riempirsi la bocca col popolare tema dei “diritti” – ricorrono all’esercizio più comodo da duemila anni a questa parte, quando si ha a che fare con la salvezza della vita umana innocente: lavarsene le mani. Poco, decisamente troppo poco, davvero per chi crede ad una società realmente, e non solo in apparenza, fondata sull’uguaglianze e quindi, in primis, sulla difesa dei più deboli che oggi sono – ci indica il Papa -«i bambini non ancora nati».