Griffe, Industria e banche: il miracolo italiano è l’evasione
L’ULTIMO CASO È BULGARI E IL SEQUESTRO DI 46 MILIONI A FRONTE DI 3 MILIARDI NASCOSTI MA SOLO DAI PROCEDIMENTI PER I CASI PIÙ NOTI LO STATO POTREBBE RECUPERARNE 4
di Marco Franchi
Il vero miracolo italiano? Far tornare a casa, o meglio nelle casse dello Stato, i tesoretti evasi o elusi dai big della moda, dell’industria, di Internet e anche del credito. In base a un calcolo a spanne parliamo – minimo – di 4 miliardi di euro. Almeno mettendo in fila i casi più eclatanti finiti sulle cronache giudiziarie e finanziarie dal 2012 a oggi. L’ultimo big della moda su cui si sono accesi i riflettori della Guardia di Finanza è stato Bulgari con l’accusa di avere evaso 3 miliardi dal 2006 a tutto il 2011. Ennesimo caso di nomadismo fiscale che avrebbe consentito, nel caso della griffe di gioielli, di far figurare i margini mondiali di guadagno in Stati diversi dall’Italia e, in particolare, prima in Svizzera, poi in Olanda e infine in Irlanda, vista come “meta finale” della pianificazione fiscale del gruppo.
C’è chi scivola sull’Irlanda e chi sul Lussemburgo. Come la famiglia Marzotto finita nella bufera a novembre per una presunta maxi-evasione fiscale da 65 milioni. Ovvero per la vendita, attraverso una scatola lussemburghese, della celebre maison Valentino al fondo Permira. Anche in questo caso, come per Bulgari, sono scattati i sequestri di quasi cento immobili. Ma la battaglia del fisco non sarà facile: i Marzotto hanno infatti calato il jolly ingaggiando il noto tributarista Victor Uckmar che affianca il team legale già sceso in campo, Niccolò Ghedini e Piero Longo, rispettivamente deputato e senatore del Pdl e storici avvocati di Silvio Berlusconi.
Nel mirino del fisco è finito anche il gruppo Basicnet , cui fanno capo tra gli altri i marchi K-Way, Superga e Robe di Kappa, che ora dovrà restituire 21 milioni di euro in tre anni. A Basicnet era stato contestato, tra il 2006 e il 2009, di servirsi di società straniere in Olanda e Lussemburgo per aggirare il fisco. Pur ritenendo non condivisibile la tesi dell’Agenzia delle Entrate, il gruppo “si è prontamente attivato per valutare una possibile definizione complessiva della vertenza, al fine di prevenire lunghi e onerosi contenziosi e beneficiare del regime premiale di riduzione delle sanzioni amministrative”. Tra le battaglie aperte c’è poi quella di Dolce & Gabbana. Circa due anni fa, il 15 ottobre 2010 – a conclusione di una maxi indagine partita nel 2007 – la Procura di Milano formula un’accusa pesante nei confronti dei due stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana: truffa ai danni dello Stato ed evasione per circa un miliardo. Dopo che la Cassazione ha fatto decadere il reato di truffa ai danni dello Stato, annullando però il proscioglimento dei due stilisti in relazione al reato di dichiarazione infedele, il processo continua.
A fare i conti col fisco è anche Luxottica, ma non per evasione, per elusione: a gennaio gli stabilimenti dell’azienda bellunese, che è leader mondiale nella produzione di occhiali, sono stati perquisiti dalle Fiamme Gialle di Belluno su mandato della Procura che ha aperto un fascicolo per approfondire soprattutto una questione: se vi sia dell’imponibile sfuggito alla tassazione italiana. Il meccanismo contestato si baserebbe su un uso non corretto del Transfer Pricing (prezzo di trasferimento). Ovvero la determinazione di un “prezzo adeguato al valore” di prodotti venduti a società dello stesso gruppo operanti in Stati diversi. Un prezzo che, se inferiore a quello reale di mercato, si trasforma in una tecnica di elusione fiscale che permette a imprese multinazionali di spostare “volumi imponibili” da un paese a un altro, magari a fiscalità più vantaggiosa, minimizzando così il carico delle imposte nelle transazioni commerciali tra società dello stesso gruppo. Più semplicemente: si pagano le tasse dove è più conveniente. Ne sanno qualcosa i colossi del web come Apple, Google, Amazon, eBay e Facebook con cui i governi europei (compreso quello italiano) stanno combattendo un’aspra battaglia da mesi. In pratica, le attività ufficiali sono state concentrate nelle legislazioni fiscalmente più convenienti , dai classici paradisi off-shore fino in Irlanda, Lussemburgo e Olanda. Lì confluiscono i proventi degli affari conclusi dove sarebbero tenuti a pagare tasse più elevate. Un esempio? In Italia tra il 2002 e il 2006 Google, che vende la propria pubblicità attraverso una holding irlandese, non ha dichiarato al Fisco un reddito imponibile di 240 milioni e non ha versato 96 milioni di Iva.
Non solo moda e Internet tra i furbetti del fisco. Basti pensare all’operazione Brontos, che coinvolge Unicredit: l’istituto di Piazza Cordusio ha già versato all’Agenzia delle Entrate 264,4 milioni di euro, chiudendo la controversia amministrativa, ma l’inchiesta penale è ancora in corso e vede, tra gli indagati, anche l’attuale presidente di Mps Alessandro Profumo con l’accusa di frode fiscale. Secondo l’ipotesi della Procura di Milano, Unicredit e Barclays, tra il 2007 e il 2009 – tramite operazioni di finanza strutturata realizzate attraverso società lussemburghesi riconducibili alla banca inglese – avrebbero evaso il fisco per 245 milioni di euro. A fine settembre la Cassazione ha disposto il dissequestro della somma, dopo l’accordo raggiunto con l’ente guidato da Attilio Befera, mentre gli atti sul processo sono stati trasferiti da Milano a Bologna. Riportando indietro le lancette del procedimento.
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