Magazine Diario personale

(Ex) malati e i loro cari: falle comunicative

Da Romina @CodicediHodgkin

Argomentaccio. Dopo mesi e mesi che ci rifletto, è il caso di parlarne anche se veramente finora ho sempre evitato perché l’argomento è vastissimo, difficile da trattare e probabilmente privo di soluzione, almeno di una soluzione che possa trovare io. Tutto nasce dalle chiavi di ricerca più comuni per il blog. “Cosa dire ad un amico malato di cancro?”, “come consolare un amico malato di cancro?”, “come comportarsi con un malato di cancro?”, “come trattare un malato di cancro”, “aforismi per un malato di cancro”, “frasi per consolare un malato di cancro” e tutta una serie di varianti sul tema. Quando ho letto “modello di lettera per un amico malato di cancro” non ci ho visto più. Ho fatto un bel respiro e ho pensato che forse è un argomento che va preso una volta per tutte, visto che sono una cancer-blogger e cerco di offrire attraverso la mia esperienza quello che spesso passa, senza generalizzare, per la mente di un malato. Il punto è che l’ex malata di cancro e la cancer-blogger con quasi 8 anni di “anzianità di servizio” come ex malata danno risposte opposte e non trovano un punto di accordo.

La Romina ex malata di cancro, quella che ha sofferto molto per queste falle nella comunicazione, quando legge queste cose, pensa “Ma vi siete impazziti?! Quand’è che questa persona ha smesso di essere una persona ed è diventata essa stessa un cancro? Se la conoscete trattatela come l’avete sempre trattata! Poi, come vi viene in mente di cercare modelli di lettera, aforismi, vademecum validi per tutti i malati che siano sufficientemente neutri da “tirar su” qualsiasi malato?! Un malato mica è una disdetta di un contratto, che serve il modello da seguire. Ma poi, un po’di spontaneità proprio no?!”.  Che poi, ho notato che 9 volte su 10 un malato non ha alcun bisogno di essere “consolato”, né tanto meno “essere tirato su”. Un malato ha bisogno dei suoi amici, ha bisogno che siano con lui durante il percorso, ha bisogno di rivendicare la sua autonomia e la sua identità rispetto alla malattia, ha bisogno che certi rapporti non cambino, che è diverso. La sua vita è già abbastanza sconvolta e difficile da imparare a gestire senza che cambino anche i rapporti interpersonali. Ha bisogno di non essere trattato come un cancro, ha bisogno che la sua malattia non gli venga anteposta. Finché un malato verrà trattato come un cancro, sarà inevitabile che poi persone armate in egual misura di buone intenzioni e sensibilità degna di un paracarro dicano le frasi più sbagliate in assoluto. Ricordate questo post? Lo pubblicai anche su Oltreilcancro e rimasi sbalordita nel vedere come le cose che ci danno urto sono praticamente le stesse un po’per tutti. Non solo: mentre per tutto il periodo delle cure vieni trattato spesso come un marziano, una volta finite le terapie le persone care, sovente sembrano dimenticare di botto quello che hai passato e qui arrivano altri serissimi problemi di comunicazione che poi è difficile superare.  E’ forse troppo chiedere di essere trattati come le persone che siamo sempre state?

A questo punto interviene la Romina che ha conosciuto la depressione post-chemio, che ha avuto il tempo di analizzarla, che è entrata in contatto con moltissimi malati ed ex malati e che con tanto duro lavoro è riuscita in qualche modo ad estraniarsi dal punto di vita della (ex)malata e a mettersi nei panni di chi con chi affronta ed ha affrontato i malati ci deve “combattere” ogni giorno. Con tutto l’affetto del mondo, va detto che il malato ed in particolar modo, forse, chi ha da poco finito le cure e deve cercare di rimettere insieme i pezzi, è spesso permaloso, irascibile e difficile da trattare (spesso anche quando non ce n’è bisogno), nel senso che qualsiasi cosa gli si dica, è sbagliata. Un po’di sana autocritica, via. Non che ci manchino i motivi per essere ipersensibili, ma forse a volte sarebbe opportuno mordersi la lingua perché non è che le persone attorno a noi parlino necessariamente in cattiva fede, anzi. Tanto per cominciare, ci sono frasi che dette da una persona ci urtano ABBESTIA e che proferite da altri nemmeno notiamo. Esempio tipico: come stai? In tanti vanno in bestia perché pensano “come vuoi che stia, cretino?!”, ma tanto se non gli si fosse chiesto nulla avrebbero pensato “mah, guarda questo che cafone!”. 5+5=10, ma anche 7+3=10. I numeri son completamente diversi ma sempre 10  danno…Bisognerebbe sforzarsi di capire che se la situazione non è facile per noi, non lo è nemmeno per chi ci circonda.

Purtroppo, troppo spesso, si arriva ad un circolo vizioso: a chi si deve relazionare con un malato viene spontaneo trattarlo come una bambola di porcellana, questo manda ai matti il malato che si chiude a riccio, a quel punto chi gli sta accanto siede su una polveriera perché rischia di sbagliare a prescindere e così via…e per i conoscenti la situazione è ancora più imbarazzante di quanto non lo sia per gli amici. Anche perché poi ci sono una serie di meccanismi che scattano, tipa quella comunissima fase post-chemioterapica del “nessuno mi capisce, soffro solo io in tutta la galassia…son tutti brutti e cattivi perché non capiscono”. E’vero, oh, se è vero che spesso la gente proprio non capisce, specialmente quando dopo le cure si ha tantissimo bisogno di supporto e tutti spariscono. E’vero. Ma sono vere anche due cose: non è che il cancro sia l’unica forma di sofferenza del mondo. Ce ne sono tante, purtroppo, e spesso chi si avvicina a noi ha avuto la sua bella dose di dolore che potrebbe essere una fonte di confronto ma che non lo può essere perché la si rifiuta. Non solo, è vero che chi non ha provato non può capire, ma è anche vero che spesso, spiegandosi, capiscono eccome. Questo l’ho provato sulla mia pelle. Ho passato un anno terribile prima di riflettere su queste cose.

Se poi si parla di uomini, è un capitolo a parte. Un giorno parlerò anche di quello perché veramente il numero di donne che mi chiedono consiglio perché gli uomini hanno reazioni “particolari” è altissimo.

Tutte queste situazioni sono gravi. Sommando la mia esperienza a quelle che ho sentito in ospedale e in questi due anni di bloggeraggio ho avuto modo di rendermi conto che spessissimo va così. La sociolinguista/psicolinguista che è in me non può fare a meno di prestare molta attenzione alle parole (anche se spesso le usa maluccio!) e al modo in cui influiscono su certe circostanze già precarie. Si alzano, da entrambe le parti, dei muri che buttare giù è difficile. Forse, tutto quello che serve, sarebbe un po’di spontaneità e discrezione da una parte e di tolleranza dall’altro. Non lo so. So solo che bisogna veramente trovare un modo di comunicare…


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