“Regione Lombardia, arresti e indagati. Manovre occulte sugli appalti Expo”, titolano i quotidiani riportando le dichiarazioni del Gip che parlano di una struttura illegale parallela, il più delle volte perfettamente integrata nelle strutture pubbliche, che gestiva gli affari e predeterminava l’assegnazione di gare e appalti e in particolare di quelli dell’Esposizione universale, al servizio esclusivo di quell’Antonio Giulio Rognoni, ex dg di “infrastrutture Lombarde”, candidato eccellente fino a qualche giorno fa per il ruolo di subcommissario per Expo2015. Sono otto gli arrestati e una trentina gli indagati in una inchiesta per reati di associazione a delinquere, truffa aggravata, falso e turbativa d’asta, che ha ghigliottinato il vertice della controllata della Regione Lombardia per la realizzazione di opere come ospedali, scuole ma anche il nuovo Pirellone, e incaricata di conferire consulenze e assistenze legali stragiudiziali e assistenza tecnica-amministrativa per i lavori legati all’Expo. Insomma si tratta di indagini sui soliti sospetti, Giuseppe De Donno, l’ex vice di Mori, Pierangelo Daccò, il ras della sanità lombarda, amichetti del cuore alla Corte del governatore Celeste, che nella palude di malaffarismo, corruzione, malversazione hanno trovato il loro habitat naturale.
Sono diventata sospettosa. L’Expo di Milano era il fiore all’occhiello del Governo Letta, che se lo vendeva e rivendeva quando andava col cappello in mano a elemosinare da sceicchi e gran visir: la vetrina del Made in Italy, l’esposizione della qualità italiana, della creatività, della tradizione coniugata con l’innovazione. Un’opera che sarebbe stato più ragionevole evitare come la peste bubbonica, esposta, come era naturale fosse, alla bramosia della criminalità, vulnerabile al brand del malaffare, suscettibile di diventare una formidabile macchina mangiasoldi della quale sarebbe rimasta, come unica impronta, la presenza di strutture inutili e fatiscenti, tanto da far rimpiangere l’unico atto ragionevole di Monti, il no alle Olimpiadi.
Ma a Renzi, anche per distinguersi dal precedente nipotino eccellente, dell’Expo importa poco, gli affari coi privati di fiducia li regola in altri contesti e la sua indifferenza alla grande rutilante vetrina avrà reso meno impervia la conduzione di indagini che ne compromettono la confezione di lusso e la realizzazione.
Certo che le mafie che da anni hanno avviato la loro tenace opera di penetrazione nel Nord Italia e soprattutto in Lombardia, probabilmente non avevano sospettato di trovarsi di fronte una così determinata e consolidata concorrenza nella malavita locale, una malavita elegante e visibile, di professionisti, rappresentanti eletti e nominati, alti funzionari e celesti dirigenti, consulenti e comunicatori. Quella stessa èlite al servizio in giro nel Paese di imprese sleali e di dinastie criminali, i Riva, i Ligresti, Sorgenia di De Benedetti per Tirreno Power, il signore della monnezza romana, ma anche Marchionne, che non si può certo considerare legale non applicare sentenze e nemmeno legittimo arraffare i nostri soldi e darsela a gambe.
A ridosso della “rimozione” di Letta, in quello che sembrava il momento più favorevole, Confindustria, l’Associazione delle Banche, la Rete delle piccole imprese, l’Alleanza delle Cooperative, le organizzazioni imprenditoriali italiane avevano chiesto al Parlamento un regime “straordinario” in occasione dell’allestimento della grande vetrina del Made in Italy, l’Expo, che permettesse loro di assumere con contratti a termine senza vincoli. E l’incontentabile Assolombarda, in ragione dell’interesse particolare delle aziende locali, aveva raccomandato la licenza – purtroppo solo temporanea – di deroga dai contratti nazionali.
Anche senza pensare direttamente a loro e al loro tallone di ferro sull’Expo, Renzi ha strafatto per accontentarli: il suo Job Act renderà possibile la rimozione di ogni ostacolo si frapponga alla perenne precarietà, alla licenza per legge dalle leggi anche morali che dovrebbero sovrintendere i rapporti di lavoro. Se l’Expo era un’occasione per accelerare la desiderata “flessibilità”, l’auspicata “semplificazione”, la sognata “liberalizzazione”, beh i giochi sono fatti e l’Expo potrebbe anche non aver ragion d’essere. Disinteressati alla legalità, visto che passano acrobaticamente dalla stato di corrotti a quello di corruttori, da concussi a ricattati, da correi a pentiti per poi ricominciare, sprezzantemente indifferenti alla tutela ambientale e alla sicurezza, dediti alla trasgressione di regole e doveri fiscali, amministrativi, abilmente sfuggenti a controlli, è questa l’imprenditoria che ha vinto la guerra di classe, con la legittimazione delle conquiste padronali, il riconoscimento per legge dell’arbitrarietà e discrezionalità più dispotiche, l’ammissione di licenze private come prassi pubbliche.
Restano in ballo affari e affaroni però, nell’Expo, spartiti o condivisi tramite alleanze opache ma prevedibili, tra criminalità “tradizionale” e economia “informale”, come si chiama ormai eufemisticamente un’economia colonizzata dal gioco d’azzardo della finanza, che rende regola l’irregolarità, che si alimenta nel disprezzo di sicurezza e tutela, che si articola in lunghe filiere di subappalti che perseguono la finalità primaria di contenere i costi del lavoro, che persegue l’annientamento di diritti e garanzie in modo da esercitare il ricatto come motore di profitto.
Non occorre una particolare malizia per rilevare le affinità tra l’imperialismo finanziario e le mafie, per notare le somiglianze tra Jekko di Wall Street e i manager al servizio delle varie Cose Nostre, professionali, competenti, per immaginare interessi comuni che uniscono governi spregiudicati, padronati senza scrupoli, sistemi bancari dediti all’usura e alla speculazione, agenzie taglieggiatrici, stati biscazzieri e mafie che estendendo il campo d’azione ad ambiziosi progetti di controllo di attività imprenditoriali e economiche e “ampliando i propri rapporti con pubblici funzionari e appartenenti alle forze dell’ordine, sono diventati interlocutori appetibili della politica per garantirsi voti in occasione di competizioni elettorali e di imprenditori a caccia di liquidità”, come ha scritto il Tribunale di Milano, in occasione del processo a termine dell’inchiesta Infinito. La circolazione di denaro sporco, l’attività di controllo dell’economia, la creazione di un reddito parallelo poco rintracciabile, l’elusione fanno pensare che la turbo finanza ha mutuato i riti mafiosi e si relazione con la criminalità in un sodalizio di mutuo sostegno.
Ma la battaglia contro l’illegalità, come abbiamo visto, non ha trovato posto nell’agenda del Governo. E nemmeno la lotta alle mafie. L’unica guerra che piace a questo ceto al potere è quello contro il lavoro, i diritti, la democrazia. E per fortuna comprano armi e aerei taroccati, abbiamo ancora qualche speranza.