Exte (エクステ, Exte: Hair Extensions).
Regia e soggetto: Sono Sion.
Sceneggiatura: Sono Sion, Adachi Masaki, Sanada Makoto.
Fotografia: Yanagida Hiro'o. Musiche: Hasegawa Tomoki, Sono Sion.
Montaggio: Itō Jun’ichi.
Interpreti: Kuriyama Chiaki, Satō Miku, Satō Megumi, Ōsugi Ren.
Produzione: Central Arts, Exte Film Partners, Tōei.
Durata: 108’.
Uscita nelle sale giapponesi: 17 febbraio 2007.
Link: Mark Schilling (Japan Times) - Bob Turnbull (Toronto J-Film Pow-Wow)PIA: Commenti: 2,5/5 All'uscita delle sale: 54/100
Punteggio ★★★
Insieme al melodramma Chanto tsutaeru (Be Sure to Share, 2009), Exte è pressoché l’unico film dichiaratamente di genere di Sono Sion, sebbene l’eclettico regista non rinunci neppure in quest’occasione ad inserire una serie di elementi distintivi del suo modo di narrare. Nell’ambito delle convenzioni del genere emergono i tratti eversivi dell’autore: il tono smaliziato, lo sberleffo che segue lo spavento, il compiacimento grottesco, l’accostamento incongruo.
Riprendendo uno stereotipo del kaidan eiga (il tradizionale film di fantasmi giapponese), prima, e del J-horror, poi, Sono offre dei capelli (femminili) la sua personale visione, legandola al culto estetico e al consumismo postmoderni, di cui le extensions non sono che un evidente emblema. Le extensions di Sono rappresentano un’incursione nel cinema di genere, quasi un divertissement, in cui si rielaborano i contenuti classici e le tematiche principali di certe opere fantastiche: la vendetta dello spirito, la violenza e i soprusi ingiustamente subiti, riproponendole attraverso un’ottica strettamente personale di fare cinema, connessa ad un discorso sulla cultura e l’interrelazione umana contemporanea.
Parallelamente al ritrovamento di una misteriosa salma dalla quale fuoriescono capelli, il film prosegue introducendo la quotidianità di Yūko (Kuriyama Chiaki, che il pubblico occidentale ha imparato a conoscere nel tarantiniano Kill Bill Vol. 1, del 2003, ma anche in Battle Royale di Fukasaku Kinji, del 2000), ventenne apprendista hair stylist, dinamica e determinata, desiderosa di realizzare le sue aspirazioni, lavorando sodo nel salone di bellezza Gilles de Rais. Recuperando e dinamicizzando il lungo piano sequenza dedicato alla protagonista di Keiko desu kedo (It's Keiko, 1997), Sono rappresenta la spensieratezza e vivacità di Yūko mentre sfreccia tra le vie cittadine a bordo della sua bicicletta, descrivendo, nel contempo, l’ambiente circostante.
Una mise-en-scène in contrasto con i toni cupi del segmento introduttivo, il ritrovamento del cadavere, che inaugura – secondo un tratto tipico del regista – quella volontà di spezzare l’omogeneità del film, ricorrendo a diversi generi: il mistery, la commedia, l’horror e, più avanti, il melodramma. Quest’ultimo è introdotto attraverso la figura di Mami e gli abusi che la piccola subisce da parte della madre, ancora un esempio di quella famiglia violenta e disfunzionale ricorrente nel cinema del regista, da Kimyōna sākasu (Strange Circus, 2005) a Ai no mukidashi (Love Exposure, 2008) sino a Himizu (Himizu, 2011).
Sotto molteplici livelli, è messa al vaglio l’intimità del focolare domestico, la sua costante precarietà (le vessazioni materne e l’ombra di un precedente aborto) che necessita, per poter sussistere, di un confronto ed una riaffermazione continui (la riprova del nascente legame tra la giovane zia e la nipotina). Una difficoltà relazionale insita nel nucleo famigliare, che solo nel finale riuscirà a trovare uno spunto di rinascita in una nuova complicità ricreatasi tra Yuko e Mami. A fianco dei tre personaggi femminili, c’è quello di Gunji (interpretato da Ōsugi Ren, già noto agli spettatori dei film di Kitano Takeshi, Miike Takashi e Kurosawa Kiyoshi). Feticista dei capelli, pervertito e sessualmente borderline, il personaggio di Gunji, pur antagonista dell’eroina Yūko e villain della storia, non è assolutamente riducibile agli stereotipi del genere.
Sono sembra riversare in esso la sua passione per gli artisti di strada, come testimoniano l’eccentricità, il lungo numero musicale di cui si rende protagonista, l’ossessione estetica per i capelli, le riprese in strada con la videocamera, l’atteggiamento eversivo, i modi da giocoliere e prestigiatore che ammaliano il pubblico, lo stravagante abbigliamento (la salopette, il maglione a stelle e strisce, le spille appuntate sul petto, il cappello di juta, i guanti bianchi e, ovviamente, la parrucca dalle lunghe ciocche nere) che per certi versi anticipa quello del travestimento di Yu in Love Exposure.
È Gunji colui che, senza saperlo, diffonde la maledizione. Coloro che incautamente indossano le sue extensions finiranno col rivivere la tragica agonia della donna da cui i capelli provengono, vittima di un macabro omicidio dovuto al traffico degli organi umani. Le loro visioni si succedono in un susseguirsi di raccapriccianti immagini di sevizie, attraverso un montaggio di rapide inquadrature, che quasi si sovrappongo nei dettagli, e un espressionistico gioco di colori che fan sì che la violenza risieda non solo in ciò che vediamo, ma anche nel modo in cui il film ce lo fa vedere e sentire (si pensi all’uso contrappuntistico del canto natalizio che accompagna le immagini, sintomo di un discorso legato alla componente religiosa che in Exte trova accenno ma non approfondimento).
Una sintassi che, per certi aspetti, somiglia da vicino a quella di Tsukamoto Shin’ya nel suo celebre Tetsuo (1989), dove la componente ricca e densa del profilmico, corpo organico e ferro in un caso e accumularsi di capelli in Sono, si esprimono entrambe attraverso un montaggio serrato, dettagli ravvicinati e frames individuali in continuità al limite dello stop-motion.
In Exte i capelli divengono un’entità a sé, implacabile e mortifera, la cui furia omicida è messa in moto dal tintinnare di un campanellino. Neri, lunghissimi e fitti fuoriescono da ogni dove: fax, condizionatori, infissi e crepe dei muri. Nella scena in cui la piccola Mami, dopo la morte della madre e del suo amante, se la deve a sua volta vedere con i capelli assassini, questi appaiono come una massa informe che nel suo inglobare tutto ciò che la circonda, rimanda ironicamente a The Blob (in particolare al remake di Chuck Russel del 1988). Sebbene rispetto ad altri lavori sia opera dalla minore portata corrosiva, l’inventiva, l’eccentricità e la rielaborazione di stili e influenze (dai b-movies al J-Horror contemporaneo, senza dimenticare il consueto sottofondo intimo e drammatico) fanno di Exte un piacevole diversivo nell’eterogenea filmografia di Sono. [Luca Calderini]