Un famoso detto dice che il blues «è l’anima della musica, la fonte alla quale si torna sempre ad abbeverarsi, motore e linfa vitale di ogni ispirazione». Da questo assioma si parte per il viaggio nel periodo più introverso del blues di fine millennio. Cos’era il blues nei primi anni Ottanta? Una domanda che può sembrare sciocca, banale. E invece ho provato un certo interesse ad approfondirla. Il blues nei primi anni ’80 veniva da un momento di stasi a livello mondiale, dalla rivoluzione di Woodstock aveva vissuto all’ombra silenziosa del rock fregiandosi di un’etichetta anche un po’ snob. Ma quando arrivò l’ondata della new wave, del punk, addirittura del Metal, il pubblico ormai era rivolto ad altri ascolti (anche alla disco) e il palco blues medio era sempre più svuotato. Se c’è un momento esatto in cui il blues iniziò ad isolarsi, tornando quella musica di nicchia, probabilmente va collocato negli anni ’70. Poi nel 1980 arrivò il film The Blues Brothers e la gente tornò ad interessarsene, ma il vero blues non era quello.
Andiamo per passi, perché non è semplice orientarsi. Innanzitutto, tale crisi non deve indurre a pensare in qualcosa di improduttivo, anzi. In questo periodo usciranno comunque degli album che hanno fatto e continuano a fare la storia del genere, ma si registra una sorta di senilità musicale, sono sempre i soliti T-Bone Walker, B.B. King, Albert King, John Lee Hooker, ecc. In questo periodo escono dischi interessanti, sia per il blues che per il rock, ma se quest’ultimo vive sempre nelle luci della ribalta, il primo vive soprattutto nel suo ghetto e nel 1980, per darsi lustro è costretto ad inventarsi i suoi Oscar, i W.C. Handy Awards.
Tra le onorificenze del 1982 e quelle del 1984 si segna il cambio di generazione. Nel 1982 vengono insigniti del premio “Blues instrumentalist” Albert Collins, Buddy Guy, Clarence “Gatemouth” Brown, Johnny Copeland e Luther Allison. Nomi celebri da almeno 30 anni e – fatto paradossale – anche nel premio “Contemporary Bluesman” vincono comunque gli stessi Albert Collins, B.B. King, Johnny Copeland, oltre a Muddy Waters e Z.Z. Hill. Non proprio dei giovanissimi…
Per non parlare della stagnazione nel panorama femminile: Big Mama Thornton, Etta James, Koko Taylor, Lynn White, Queen Sylvia Embry. Età media: 65 anni. Insomma, il blues ancora non è roba per giovani, che appena lo scoprono lo esportano nel rock e nelle sue contaminazioni. Tanto per comprendere, nel 1983 la new entry negli uomini è rappresentata dall’ultrasettantenne Jay McShann, nelle donne sono gli stessi cinque nomi rimescolati. Occorre allora sintonizzarci nel 1984 per trovare una ventata di freschezza con il trentunenne Robert Cray tra i Top 5, il trentenne Stevie Ray Vaughan inserito nei 5 migliori bluesman contemporanei, e compare per la prima volta anche il nome del già immenso Johnny Winter. Anche nel panorama femminile emerge la voce della venticinquenne Valerie Wellington, una ventata di freschezza.Ma torniamo al 1982, l’anno di Coda dei Led Zeppelin e del blues di Jimmy Page, uno dei migliori interpreti dell’ondata british degli anni ’60. In quello stesso anno escono anche Dog House Blues dei Canned Heat (in quel periodo alle prese con la morte di Bob Hite e gli avvicendamenti tra Vestine e Trout), e Juggernaut di Frank Marino. Influenze e stili diversi accomunati dal virtuosismo chitarristico. Dell’anno successivo, il 1983, vale la pena ricordare One More Mile di Clarence “Gatemouth” Brown e Eliminator dei ZZ Top, ma soprattutto occorre soffermarsi su Don’t Lose Your Cool di Albert Collins. Dal titolo quasi un’esortazione ai colleghi per non perdere la bussola, cosa che Collins in circa 50 anni di carriera da musicista non ha mai fatto.
Eppure è un artista dalle mille sfaccettature, che ha svariato dal blues al jazz, al country e l’R&B. In questo disco Collins fa un’operazione che apparentemente non fece scalpore ma in effetti era tutta tesa a “rivitalizzare” il suo stile: il Texas Blues, che in quel periodo si stava un po’ sfaldando. Lo fece nel modo più semplice e congeniale che un bluesman può concepire, con alcune cover: Quicksand di Guitar Slim e Get to Gettin’ di Big Walter Price. Di seguito invece il video di When a Guitar Plays the Blues, in cui si capisce il perché Collins è anche conosciuto come “The Master of Telecaster”.
Si intuiscono tutta una serie di sfumature, compresi gli innesti di nuovi strumenti come l’organo. Lo fece dopo aver scandagliato diversi altri stili blues (suonò anche in tour con i Canned Heat sul finire degli anni ’60) nel suo passato in California. Il fatto di arricchire il blues con nuovi strumenti non fu una sua intuizione ma un processo naturale di ogni gruppo o artista. Per esempio, in Eliminator, gli ZZ Top introdussero i sintetizzatori e suoni che il blues non aveva ancora conosciuto. Collins non fece mai mistero di aver tratto ispirazione da John Lee Hooker ma anche dall’organista Jimmy McGriff.
Perché è importante Albert Collins? Innanzitutto perché in questo periodo (e fino ai primi anni ’90, poco prima della sua scomparsa nel 1993), Collins girò il mondo in tour, non soltanto negli States e in Canada, ma anche in Europa e Giappone. Ciò gli permise di diventare uno dei bluesman più conosciuti nel panorama mondiale. La sua influenza si nota in Coco Montoya, Robert Cray, Gary Moore, Debbie Davies, Jonny Lang, Susan Tedeschi, Kenny Wayne Shepherd e soprattutto Stevie Ray Vaughan, che proprio nel 1982 pubblicò con i Double Trouble il suo disco d’esordio che resterà nella leggenda: Texas Flood. Appena salito alla ribalta, il chitarrista di Austin trasuda da subito un forte debito con Albert King per gli evidentissimi inflessi chitarristici. Tanto per intenderci: ascoltate un disco qualsiasi di Albert Collins e l’accostamento Vaughan-Hendrix verrà decisamente ridimensionato.Non che Stevie Ray Vaughan non fosse stato ispirato anche a Hendrix, per sua stessa ammissione e per le sue tante cover realizzate. Ma l’influenza più evidente è proprio quella con Cillins, oltre agli altri padri del blues moderno: Freddie King, Chuck Berry, Buddy Guy e B.B. King. E c’è chi vi inserisce anche Kenny Burrell per le tante sfere jazzate di Vaughan. La storia della sua ascesa è controversa. Torniamo al 1982: Mick Jagger lo ascolta e lo segnala al produttore Jerry Wexler. Un mese dopo l’uscita di Texas Flood, nel luglio del 1982 SRV viene invitato assieme ai Double Trouble al Montreux Jazz Festival. Croce e delizia, quell’esibizione da un lato produsse sonori fischi da parte di un pubblico abituato alle sonorità jazz. Fortuna volle che in platea ci fosse David Bowie che lo ingaggiò come chitarrista solista in Let’s Dance.
Ascoltare la chitarra di Vaughan negli assoli di quel disco (che resta comunque un capolavoro del rock) è un calcio in faccia alla miseria, sprecato. Non era fatto per il pop rock e la new wave, così in quello stesso periodo ringraziò Bowie e tornò con i Double Trouble in Texas. Alla pari del grande T-Bone Walker negli anni ’60 e ’70, Stevie Ray Vaughan divenne l’ambasciatore del Texas Blues di fine millennio, alla pari degli ZZ Top per quanto riguarda il Southern Rock. Certo, non fu solo grazie a Vaughan se poi il Texas Blues poteva dirsi salvo. Nei primi anni ’80 va registrato infatti un importante ritorno di interesse verso la musica afro-americana e in questo senso fondamentali furono anche due pubblicazioni per la Malaco Records: Blues Down Home di ZZ Hill del 1982 e The Blues is Alright di Little Milton del 1984. Lo stesso anno uscirà anche Couldn’t Stand the Weather, disco che segna la definitiva consacrazione di Stevie Ray Vaughan e che comprende una delle sue più celebri esecuzioni, la cover di Voodoo Child (Slight Return) di Jimi Hendrix. Il 1984 fu anche l’anno di I’m in a Phone Booth, Baby di Albert King, che coincide con un lungo ritiro dalle scene per via di uno stato di salute precario: quasi un passaggio di testimone al suo erede designato.