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EXTRA|Batteristi a confronto: Connors, Rowntree, Kramer, Mitchell

Creato il 31 gennaio 2011 da The Book Of Saturday

EXTRA|Batteristi a confronto: Connors, Rowntree, Kramer, Mitchell

Io sono un chitarrofilo, di quelli che a ogni disco l’orecchio finisce alla chitarra e da lì non si schioda. Parlare degli altri strumenti mi mette quindi spesso in difficoltà, soprattutto se privi di corde. Nel caso della batteria, per esempio, trovo complicato avanzare giudizi, e ad esser sinceri fino in fondo, ascolti marginali mi portano sempre con l’ammettere che sono tutti bravi, e nessuno.  Ma, non si fa!

Ecco perché ho voluto giocare con alcuni dischi, dedicare completamente la mia fruizione alle bacchette, cercando di mettere da parte per un momento i suoni e andare a scovare piuttosto i ritmi, i rumori, le melodie dei rumori, le percosse e le vibrazioni. La mia selezione è variegata, non un raffronto di batteristi dello stesso genere, ma anzi, quattro dischi che più diversi tra loro non si può: Until Your Heart Stops dei Cave In, Leisure dei Blur, Done With Mirrors degli AerosmithLive at Berkeley della Jimi Hendrix Experience.

Partendo dal presupposto che non sono un tecnico quindi le mie sono più che altro opinioni e non critiche. Implicito poi che un batterista professionista sia bravo, pulito, e soprattutto tenga il tempo, non ho voluto cadere in futili considerazioni sulla tecnica di base che non metto in dubbio, e che poi trovo anche noioso dover rilevare. Focalizzando invece, esclusivamente, l’attenzione sul plus che un artista può regalare al suo pubblico, compreso, ovvio, il fatto che un amante della batteria prog o jazz, soltanto per fare un caso, difficilmente metterebbe un cd dei Blur per Rowntree.

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Il mio viaggio parte da Until Your Heart Stops, l’album d’esordio dei Cave In (da non confondersi con Beyond Hypothermia, che invece è la prima raccolta di demo uscita lo stesso anno), uno dei gruppi più violenti che abbia mai ascoltato. Datato 1998 è anche il più recente di quelli che ho selezionato. Alla batteria troviamo J.R. Connors, e quelle di seguito sono le mie conclusioni dall’ascolto del disco, che poi ritengo anche molto bello, accompagnate da un video del brano Juggernaut tratto da un live del 2003 e traccia spartiacque dell’album.

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Eccolo lì, petto nudo e pantaloncini in un contest di Mtv, in una parola: potenza. Capace di reggere da solo i momenti di stasi tipici della band di Methuen. Data però la sua consuetudine all’utilizzo di tanti pattern che finiscono sempre nella stessa pasta, il suo vertice di creatività mi ha toccato in una chiusura con cassa e pedale in controtempo nel brano Until Your Heart Stops. Molto, molto veloce, soprattutto nelle raffiche, alcune danno la sensazione della campionatura, tutte esattamente e perfettamente calibrate. Ma si sa che la velocità non è poi tutto, perché, oltre un certo numero di vibrazioni al secondo l’orecchio umano non riesce più a distinguere il silenzio dal rumore e subentra il riempire i vuoti a scapito della precisione e del tempo. Tra le doti di Rowntree, tuttavia, c’è una tecnica profonda, molta tecnica che però va anche a ledere l’imprevedibilità, restando rinchiuso in un limbo. Soprattutto quando abbandona gli acuti e si ritrova come ad eseguire il compitino dato dal maestro.

Dopo tante belle parole potrebbe sembrare una contraddizione, ma, ferma la sua bravura, essere così veloci nel ’70 era portentoso, esserlo negli anni ’90 è già comune, dunque, servirebbe maggiore fantasia che Connors spesso svela di non possedere. Tuttavia il suono è pulito e la parte ritmica è predominante, segno di una forte impronta nel disco, e anche se chitarra e voce la fanno da padrone lui riesce a ritagliarsi uno spicchio talvolta preponderante. Si distingue per l’utilizzo continuo dei piatti, qui giustificato dal rumore come intento, spesso ad emulare il cosiddetto campanaccio, una parte spesso usata nel metal e ancor più nell’indie rock, ma qui suonato con un semplice piatto bloccato con la mano di riporto, annullando così i diversi armonici fino a rendere sordo il tutto. Non è una trovata così geniale ma (come nel video) quando viene usata per stoppare il brano a me entusiasma sempre.

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Nel 1991 usciva il primo album di una band che avrebbe rivoluzionato la scena della musica britannica per tutti gli anni ’90. In Leisure dei Blur prende le mosse l’autodidatta Dave Rowntree. Anche in questo caso si parla di un esordio: lineare, suono pulito, interessante soprattutto per i cambi di ritmo, che vanno sempre ad aumentare, questo anche per via del britrock che proponevano i Blur. Il suo è un tipico esempio di midtempo che spesso avanza fino a sfiorare l’uptempo. Oppure restare fissato in canoni ben prestabiliti senza forzare troppo le bacchette. Utilizzo piuttosto leggero della gran cassa, il che conferisce ai brani di questo album una sottile patina di carta velina.

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Forse uso eccessivo di piatti e Charleston (che per me equivale all’abbondare di sale per confondere il sapore del sugo…). Ma pur nella sua semplicità come non apprezzare introduzioni a pezzo già iniziato, come in Sing? Tuttavia, con il trascorrere dei brani la sensazione di interesse scema per una più moderata tolleranza, e alla fine si resta a fissare a mente l’eserciziario di un batterista realizzato nel suo pur circoscritto mondo di tempi quasi sempre uguali: tum-cha, tum-tum-cha, tum-tum-tum-cha.

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Da qui a Song 2 il passo è breve, evoluzione zero. C’è anche da dire che l’orecchio attento riuscirebbe a carpire tante piccole sottigliezze che rendono già le sue esecuzioni leggermente al di sopra dello scolastico. Peccato che la taratura del volume lo relega spesso a svolgere il ruolo del comprimario, almeno questa è la mia sensazione. Certo che, per essere alla sua prima esperienza da professionista ha retto bene all’urto della sala registrazioni. In campo sperimentale però c’è ben poco a cui appellarsi, se non un piccolo assaggio di elettronica laddove poteva anche essere evitato che non se ne sarebbe accorto nessuno. Un po’ pochino per uno con la fissa dei computer come lui.

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Un altro che non ha mai disdegnato la velocità è sicuramente Joey Kramer. Avrebbe voluto anche di più, e nei ’70, agli albori degli Aerosmith, non si fa pregare per farlo, ma poi il ballad rock che negli anni Ottanta offre la band di Steven Tyler non gli consente di andare oltre. Resta comunque uno dei batteristi da me più apprezzati. Giusta miscela tra bianchi e neri, tra piatti e tamburi, riuscendo all’occorrenza anche a tenere quasi un intero brano con il charleston.

Non una cima di ingegneria ma un corretto esecutore che ha saputo plasmarsi specie sui vocalizzi di Tyler, seguiti spesso con una serie di rullante ben incastrata nell’assieme. Rispetto ai precedenti batteristi ci sono altre due cose da notare del Kramer di Done With Mirrors. La prima è il suono conferito alla batteria, riverberata in perfetto sound anni Ottanta. La seconda – quella che preferisco -, il ricorrere spesso alle rullate alternate su tutti i tamburi per concludere, in una specie di sospensione eterea sui tom-tom. Tutto ciò fa della batteria uno strumento melodico aggiuntivo a chitarra, basso e voce, una cosa vecchia già allora di almeno quindici anni quando iniziarono a comparire le band di Canterbury. Insomma quei tum tum, tam, te-tu-tuuuu-tuuuum, finendo con quel cchhhhhhhhh che non lascia proprio scampo. Anche l’heavy metal offre esempi interessanti, su tutti credo l’Ullrich di Fade To Black: da brividi!

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Ho faticato molto per reperire materiale video relativo a questo album, perché è uno dei lavori meno considerati degli Aerosmith, un ritorno all’hard rock prima di sfondare di nuovo con Permanent Vacation. Quindi dovremo accontentarci di Let The Music Do The Talking in versione clip-promo, in cui Kramer lo si riesce a scorgere in alcuni scampoli.

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Con Mitch Mitchell il discorso si fa più complesso, per una ragione ben precisa che riconduce direttamente all’esecutore stesso. Mitch Mitchell è un nome. E si torna soprattutto agli anni ’70, cioè all’apoteosi della fantasia mista a tecnica, sicuramente più grezza, ma anche più genuina e, aggiungo io, maggiormente estrosa di talento e genialità. Tanto quanto Billy Cox e Noel Redding, lui è come tutti gli altri la Jimi Hendrix Experience, mica poco. È indubbio che una volta inserito il disco e fatto play la curiosità risiede tutta in come riuscirà ad emergere dalla scena, visto che la gente è in completa estasi per Jimi. Ma Mitch è, primo, preparato alla sfida, secondo, un corollario di fughe, rientri, e tantissimo materiale ritmico su cui poter incartare due, tre, dieci concerti di fila senza sfigurare lì dietro. Interessante il suo feeling con le parti di assolo di chitarra, ora una serie di tintinnii sul piatto, ora una veloce ascesa di charleston, e via. È il tipico giocatore di basket che predilige il tiro da tre, botta secca di grancassa, suspense, la palla gira e inesorabile va a fare “ciaf” a canestro.

È tutto un contro tempo, ritmi zoppi e salite e discese: in un brano, in ogni singolo brano del concerto, c’è sempre tutto. Mitchell non è un che si tiene il colpo ad effetto per strappare l’applauso. Così come non è uno di quelli alla Bonham che porta la band a fargli fare soliloqui di venti minuti. A lui bastano magari un minuto e venti di intro in I Don’t Live Today, prima che la Fender di Hendrix rientri in scena. Seguire Mitchell non è comunque cosa facile, l’orecchio inevitabilmente finisce lì dove sapete, e a volte non c’è verso di indirizzarlo oltre che si blocca per secondi su Hendrix. Lo si afferra in toto però negli oltre 11 minuti di Machine Gun, dove tira fuori tutto il jazz che è in lui, e la cosa deve aver appassionato molto i presenti, visto che Berkeley Festival è sinonimo soprattutto di jazz. Anche tanta improvvisazione, senz’altro.

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Infine ha anche l’onore, lui e lui solo, di “sporcare” la celebre Star Spangeld Banner… Se Hendrix è diventato un’icona, Mitchell è stato il suo più fedele Virgilio nell’accompagnarlo fino alle porte del Paradiso. Nel video, tratto da un live per la tv belga nel ’67 (quindi tre anni prima di Berkeley), Mitch dimostra tutto il suo spessore e la sua beltà scenica, un modo di suonare che sembra quasi una danza, riff che passano da destra a sinistra, mai entrambe le bacchette si staccano dalle membrane, sembra di vedere un direttore d’orchestra alle prese con la conduzione di un’aria di Beethoven.



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