A distanza di quasi un anno torno sulla questione dei generi, allora avevo provato, con risultati interessanti, a fare chiarezza sul significato del termine post-rock, giungendo alla conclusione che un genere non può essere considerato “post” di qualcosa solo perché viene dopo, quindi che il post-rock non è mai esistito. Stavolta spero però di offrire ai lettori un quadro meno partigiano.
Come allora presi i primi passi dal disco d’esordio dei Tortoise, anche ora debbo pur prendere le mosse da un disco in particolare. Ne scelgo uno che, se non di vero capolavoro poco ci manca: Holy Wood (In the Shadow of the Valley of Death), dei Marilyn Manson. Una rock opera, che sebbene sia stata concepita per aprire la trilogia completata da Mechanical Animals e Antichrist Superstar, è uscita per ultima e risulta essere senza dubbio l’apice creativo e introspettivo del vocalist e leader del gruppo.
Qui però Manson mette fine a tutta una serie di stereotipi sulla sua qualità artistica, districandosi nell’utilizzo, non soltanto della magnifica voce, bassa, calda, ruggente, tetra, ma anche di vari altri strumenti, come flauto elettronico, synth e bassi. La storia di Manson uscito dal reality stile Amici qui viene definitivamente spazzata via, trattasi invece di un grandissimo e poliedrico cantautore, purtroppo per lui (ma se l’è anche cercata) caduto spesso in disgrazia per un’interpretazione eccessivamente distorta dei suoi testi da parte di fanatici schizzati alla Chapman (vedi la storia della strage del Columbine).
Ma tralasciando i diversi significati e le conseguenze che questo album portò alla società, una cosa è certa: quanto a catastrofi, morte ed eresia, Manson è l’icona più affermata e di successo. Potremmo aprire mille parentesi se poi sia giusto così, ma il fatto che lui e il suo gruppo abbiano sfondato più di ogni altro nella nostra civiltà post 2000, questo è sotto gli occhi di tutti.
E lo dicono anche le classifiche di vendita, perché se inseriamo la band di Fort Lauderdale nel solco, che mi pare il più coerente, dell’Industrial Metal, appare seconda soltanto alla band che potremmo definire madre del genere e anche protettrice dello stesso Manson: i Nine Inch Nails. Infatti, questo “Extra” è anche per chi ama i NIN e sputtana il Reverendo, ignorando i molteplici punti in comune che corrono tra i due fenomeni.
Mai connubio fu più produttivo e genuino, ed è scritto a caratteri indelebili il patronato che Trent Reznor operò su Marilyn Manson, che se non fosse stato per il leader dei Nine Inch Nails, forse sarebbe ancora a scrivere giornaletti pseudo-pornografici al liceo, con amara disgrazia per i suoi estimatori. In Holy Wood per esempio, la chitarra solista è di Twiggy Ramirez, imprestato a tempo determinato da Reznor.
Ma andiamo per passi, sono partito da Holy Wood perché da lì vorrei fare un’operazione di ordine, cercare di districare gli intrecci di fili contorti attorno allo zoccolo duro del genere musicale in questione, prendendo come riferimento il 2000, anno spartiacque per Manson ma anche di revisione, da un lato, e di affascinanti esordi dall’altro. Qui si parla di diversi generi e stili, tutti, fondamentalmente di rottura con il passato. Sono da analizzare almeno due aspetti, quello legato all’Industrial Metal e quello legato all’Alternative Metal. Le diverse coloriture dell’uno o dell’altro portano inevitabilmente ai loro alter ego più squisitamente rock.
C’è poi la faccenda del Glam, e mettiamocelo pure nel calderone questo spaccato del rock forse troppo frettolosamente derubricato a genere di secondo respiro. Perché questi tipi che iniziavano a collegare elettronica, chitarre e bassi pesanti, sintetizzatori, effetti vari, si presentavano anche con abbigliamenti, acconciature, e anche testi delle canzoni, prettamente di stampo glam.
Dunque, è dagli anni ’80 che si parte, e dentro c’è di tutto, dal David Bowie di Ziggy Stardust al Prince in versione R&B, fino a lambire gli anni estremi a cavallo dei Seventies, quindi andrebbero almeno citati Lou Reed e Iggy Pop. Di tutti questi artisti, il Metal di vent’anni dopo coglierà soltanto l’aspetto estetico, sviluppando il lato edonista e dandy dei front men, fino ad arrivare a vere e proprie alterazioni delle personalità. A bruciapelo vengono subito in mente i Kiss, il loro trucco super esagerato, ma in realtà, chi quel genere lo ha vissuto o se ne è interessato, avrà nella sua mente tutto un corollario di band che all’epoca spopolarono.
A mio avviso, i più intriganti furono i Twisted Sister di Dee Snider, ma c’erano anche gli Shy, i Def Leppard, gli Skid Row, e gli stessi Guns n’ Roses che tuttavia si inseriscono in un contesto più rock e meno glam. Dunque, qui siamo già in una fase di transizione, perché è vero che i protagonisti si esibivano in tenute decisamente da set di fantascienza più che da concerto, ma è anche vero che in alcuni casi è uscita fuori anche una grande caratura tecnica e molti brani di quel periodo metallaro, ancora oggi sono delle hits senza tempo.
Ed arriviamo così agli anni Novanta, in cui la decostruzione del rock ha subito accenti a tratti decisivi. Si parte dal grunge, sicuramente l’anno zero del rock, in cui, partendo dai presupposti del punk, la tecnica lasciava sempre più spazio alla cruda ribellione. Iniziano a farsi largo temi come il suicidio, la strage, il sacrificio. Alla caduta del Muro di Berlino e all’apprestarsi del cambio di millennio, la musica si fa carico del sentire comune giovanile, in cui un ruolo fondamentale lo svolge la paura, o meglio, la sfiducia verso il domani.
È evidente che pensando a quello che poi canterà anche Marilyn Manson ci sono più tratti in comune che non di diversità. Solo cambia il modo di proporre questi temi. Il metal in questo si è saputo ritagliare un posto di primissimo ordine, sfaldandosi in tante piccole nicchie attigue, dove è lampante il trarre da una o dall’altra in base alle circostanze e agli ascolti degli stessi gruppi.
Rispetto alle loro versioni genuine, rock e metal industriale propongono tematiche simili con un maggiore fattore affidato alla fusione di stili e un utilizzo consistente del bagaglio tecnico che nell’ultimo ventennio si è andato sviluppando. Quindi il termine “industriale” potremmo collocarlo allo stesso grado di come avevamo collocato il termine “glam”, cioè l’interpretazione più che l’intento. In fin dei conti le melodie sono sempre quelle (talvolta ascoltando Manson si rievocano motivetti alla Bee Gees ma solo cattivi), con l’ausilio di strumenti che riproducono rumori di fondo, strade, traffico, battiti delle suole delle scarpe, crash di esplosioni, detonazioni.
Tra la fine del 1980 e tutta la decade successiva, viene fondato l’Industrial Metal, tappa che per convenzione viene assegnata al gruppo britannico Godflesh, menzionati poi anche da Metallica, Faith No More, Fear Factory. Si assimilano i lavori dell’hard rock, come quello dei Black Sabbath, e vi si mescolano le elaborazioni ai sintetizzatori tanto care a Brian Eno.
Negli anni ’90 si impongono i Nine Inch Nails, che riescono a farsi portavoce dell’Industrial sia nella versione hard del metal, sia in quella soft del rock. Ma è più in quest’ultima che riusciranno ad identificarsi maggiormente. Dalle loro costole, e dal loro esempio, nasceranno band come i già citati Marylin Manson, ma anche gli A Perfect Circle. Non è un caso che nel book del live And All That Could Have Been uscito nel 2002, i NIN ringrazino entrambi. Ma con gli A Perfect Circle siamo già all’Alternative Rock, per certi versi al fantastico. I presupposti che poi porteranno al noise rock e al rock industriale in senso stretto sono però tutti da riconoscere ai Big Black.
Quelle esperienze, fuse con il punk metal simile a quello dei Corrosion of Conformity, finiranno per svilupparsi su molteplici piani incrociati. Il rap dei Faith No More, ma anche il trash-scream-death metal degli inconfondibili Fear Factory, o dei Sepultura di Max Cavalera (che poi svilupperà con i successivi Soulfly), o con vene di speed nel caso dei virtuosissimi Megadeth. Fino al metal puro (seppur sincretico) dei Metallica anni ’90. Ma anche quest’ultimi, nel decennio dopo, non disdegneranno l’approdo al Nu Metal, e l’ingaggio di un bassista “fisico” come Trujillo ne è la comprova.
Il Nu Metal sarebbe nato con i Korn, anche se poi verrà molto abusato da band quali Linkin Park e Limp Bizkit. Forse i Korn sono il gruppo che io conosca più vicino ai Marylin Manson, mentre il fusion tra metal e jazz lo proveranno gli Helmet. La storia proseguirà con alterne fortune quando nella decade appena trascorsa una bella scossa arriverà da Tool, System of a Down, Rage Against the Machine e poi Queens of the Stone Age. Se vogliamo andare leggermente oltre, potremmo sistemare i Placebo da un lato e i Mötley Crüe dall’altro.
Ma torniamo indietro, al 1997, anno di uscita del disco Earthling del duo Trent Rezonr-David Bowie. È l’apice di quel discorso di fusione tra metal e glam di cui sopra. Un’esperienza che darà molto a Reznor, che già due anni dopo firma con i NIN il disco Fragile, pubblicato neanche un anno prima del già citato Holy Wood dei MM, mentre nel 2001 esce Mutter dei Rammstein. Ecco, questo secondo me è il punto di massimo splendore dell’Industrial Metal: Nine Inch Nails, Marilyn Manson e Rammstein inizieranno anche un picco di vendite, in rigoroso ordine di incassi. Per inciso, l’Italia non compare neanche tra i primi venti posti e questo la dice lunga sulla nostra cultura rock.
Ovviamente ragionamenti di questo tipo non possono essere esaustivi, né pretendono di esserlo. Ci sono talmente tante sfumature di un genere, tanti i gruppi, che sarebbe impossibile raccoglierli tutti, un compito che affidiamo invece alle enciclopedie o alle guide. Per conto mio, mi sono invece divertito ad estrapolare dalla mia collezione alcune produzioni nella sfera del metal industriale uscite nel 2000, lo stesso anno in cui Holy Wood faceva il suo ingresso nei negozi di musica.
Partiamo dal 22 aprile, data in cui Dee Snider, cantante dei Twisted Sister, dava alla luce il suo primo (ed unico finora) album da solista Never Let the Bastards Wear You Down, un misto tra il consueto hard rock dei TS e un ritorno all’heavy metal classico. E non credo sia un’eresia accostarlo a Resurrection dell’ex Judas Priest, Rob Halford, uscito l’8 agosto dello stesso anno. Anche qui si tratta del primo lavoro in studio da solista, e ancor più che nel caso precedente vi è una chiara aderenza al metal di maniera. Ciò che non è mai riuscito a fare invece Bon Jovi, che con la sua band omonima, il 13 giugno pubblicava Crush, stesse lunghezze d’onda dei sei precedenti album, in cui il brano di punta, It’s my life, altro non è che una scivolata anche prevedibile alla strumentalizzazione dell’hard per facili guadagni.
E arriviamo così ai quattro album Alternative del 2000, in cui ci sono diverse new entry nella scena tracciata sopra a grandi linee. Il 25 aprile è la data d’esordio dei Papa Roach con Infest, band che fin da subito si impone per il largo utilizzo dei canoni Nu Metal, tuttavia senza disdegnare la qualità e discostandosi fin da subito dagli esempi cattivi di quel genere.
Poco dopo, il 23 maggio, fu la volta degli A Perfect Circle, con Mer de Noms, alternative rock puro, punte di industrial, nel complesso probabilmente il disco più interessante di questa serie, grazie anche all’esperienza del cantante della band, Maynard James Keenan, ex Tool. Lo stesso che offre la voce in Passenger, nono brano di White Pony, la terza fatica dei Deftones, uscito il 20 giugno dello stesso anno. Per concludere, un colpo decisivo venne dai Soulfly, che con Primitive proseguirono i presupposti tracciati dall’omonimo di due anni prima: qui l’Alternative si mescola al groove, al soul e al consueto trash di Cavalera.