Per quanto le loro storie possano sembrare sconnesse, vedrete che tuttavia tra Pink Floyd, Genesis, Popol Vuh, Can e Clarence “Gatemouth” Brown, ci sono molti più paralleli di quanto potrebbe sembrare. Ma occorre andare nel micro per osservarli. E allora partiamo da un piccolo preambolo: progressive, blues, rock psichedelico, elettronica, tutto è mescolato. Torniamo indietro all’anno 1972: cinque anime diverse, cinque spaccati di quanto può offrire la musica di quel periodo. Parto dai Genesis, perché forse quello, più di tutti, è il loro anno. Attenzione, non fraintendetemi, è vero, fu anche l’anno di Octopus dei Gentle Giant, e di Thick as a Brick dei Jethro Tull, per carità. Come non ricordarli.
Però non credo di dire un’eresia sostenendo che con Foxtrot, i Genesis misero tutti in fila. Non ce n’è, e l’intro di organo di Tony Banks in Watcher of the Skies introduce subito l’ascoltatore dell’epoca a prender coscienza della piena maturazione di Gabriel e compagni (compiuta definitivamente con il successivo Selling England by the Pound).
Il resto del disco lo spiega accoratamente il nostro Foxtrot (il nostro autore, non il disco), e non mi dilungo troppo nel dettaglio. Ma dico che l’ultima suite Supper’s Ready è di una meraviglia senza precedenti, gli arrangiamenti, le partiture, l’enfasi che Gabriel ci mette per rappresentare la scena, tutto è una grossa esplosione di sentimenti, un insieme di strumenti, che passo dopo passo inventano e traspongono qualcosa di nuovo:
Non posso fare a meno di notare un’altra cosa, che per me non è un dettaglio. Foxtrot venne pubblicato il 6 ottobre, un giorno non casuale in quanto, per dirla alla Guccini, ci sono nato io. Ma dalla visione del video precedente, emerge quanto il già citato Foxtrot avesse ragione quando mi disse: «Per capirli fino in fondo, vanno visti dal vivo». Ecco, vedere i Genesis con Gabriel sul palco era come andare a teatro. Questo ci aiuta a fare un primo confronto con i Pink Floyd. Con Gilmour, Waters, Mason e Wright, dal teatro si passa al cinema, dolby surround e 3D insieme.
Entrambe le band facevano dei loro concerti veri e propri spettacoli (in questo definitiva sembra la pienezza dell’ultimo The Wall di Waters), tra esplosioni di luce, colori e giochi pirotecnici. I Floyd inarrivabili nella seconda tipologia, i Genesis geniali nella prima, con Gabriel che è un Pierrot ricco di movenze e di espressioni tra il serio e il faceto. I Genesis erano l’eleganza, i Pink Floyd la superbia e la detonazione. I Genesis pastellati, dai contorni sfuggevoli, come un quadro di Chagall. I Pink Floyd surreali, tra Matisse, Dali e De Chirico. Proprio mentre i Genesis pubblicavano una delle opere più celebri e riuscite, per paradosso il 1972 è anche l’anno in cui i Pink Floyd fecero “flop”. Nel senso che il loro Obscured By Clouds, opera concepita come colonna sonora per il film La Vallée, del francese Barbet Schroeder, non ebbe il riconoscimento che ci si attendeva. Tanto flop che neanche il regista ne utilizzò l’intero materiale sonoro, lasciando integre nel film soltanto la title track (più avanti segue il video con l’attacco originale del film, così come si presentò al cospetto del pubblico in sala) e l’ultima traccia Absolutely Curtains. Tutto il resto finisce in pellicola come accenno marginale del film stesso.
È vero, era difficile replicare il successo di More (altro disco per colonna sonora dei Pink Floyd), ed è altrettanto vero che è più semplice derubricare Obscured by Clouds a semplice disco sperimentale in vista del colossale The Dark Side of The Moon dell’anno successivo. O meglio, materiale di scarto. Ma ammetto che quando guardo all’immensa discografia dei Floyd, un pensierino gentile a Obscured lo faccio sempre. L’ho ripreso dopo tanto tempo, al primo riascolto ho pensato: «Accozzaglia di repertorio da sgabuzzino». Al secondo è seguito un semplice «però…», al terzo è scattato di nuovo il colpo di fulmine. Perché gli slide di Gilmour sono i fratelli di quelli che riecheggiano nel precedente Meddle, perché certi assoli sono di una purezza che ritroveremo soltanto in The Wall, e anche perché per la prima volta sono riuscito a carpire (ma solo in cuffia) l’impercettibile e bagnaticcio aprir della bocca di Gilmour prima di iniziare a cantare (quello che dice Diego). Resto convinto con quanto disse Nick Mason, ovvero che Obscured fu «un disco straordinario».
Fu registrato allo Chateau d’Herouvile di Parigi, per ovvie ragioni di opportunità, visto che il film era di produzione francese. A Parigi, in quel periodo, bazzicava anche Clarence “Gatemouth” Brown, che dal 1971 al 1973 si divise a suonare tra gli studi Barclay e Decca. La somma di quelle registrazioni, molte delle quali sono live (in quel periodo divenne ambasciatore ufficiale della musica americana nel vecchio continente), fece nascere quello che verrà ricordato come il suo primo disco ufficiale: The Blues Ain’t Nothin’. Ma CGB aveva già una carriera di vent’anni di Texas Blues alle spalle, iniziata nel 1947 al Bronze Peacock Room di Houston, una sera in cui rimpiazzò l’ammalato T-Bone Walker e deliziò l’uditorio con Gatemouth Boogie.
Probabilmente David Gilmour non aveva neanche idea di chi fosse questo mostro sacro del blues americano, nonostante il chitarrista dei Pink Floyd si cibi fin da subito del blues e delle sue scale. Sarebbe stato bello vederli suonare insieme. Dopo oltre 20 anni, compresa una serie di collaborazioni con il portentoso chitarrista country, Roy Clark, quel Brown parigino fu un campionario di eclettismo e di blues ibrido. Dentro c’era il violino country (che Clarence suona quasi meglio della chitarra), la grande influenza del jazz delle Big Band, e la fissazione per Count Basie, di cui CGB riprenderà diversi arrangiamenti. La sua passione per il jazz e per la Swing Era la si nota soprattutto dalle sezioni di fiati che compongono questa Take My Chances:
Ma lasciamo Parigi e spostiamoci un po’ più a est, nella Germania divisa, in quegli stessi anni vero calderone di esperienze musicali di livello internazionale. Laddove il Krautrock stava diventando l’alternativa al prog di Canterbury. Almeno quanto agli esiti, e sarà banale e generalizzato, ma in città come Berlino, Colonia, i Can divennero ben presto gli asceti di questo nuovo realismo, tra elettronica, rock e acid-jazz. Il 1972 per i cinque Can (Karoli, Czukay, Liebezeit, Schmidt e Suzuki), fu un po’ l’anno della conferma e allo stesso tempo dell’accettazione che il panorama stava cambiando e gruppi come Krafterk, Neu!, Faust, ormai avevano pareggiato i conti con dischi epici come il precedente Tago Mago. E insomma, possiamo dire che l’album Ege Bamyasi, originale, surreale e provocatorio come la sua copertina raffigurante un barattolo di Okra (“Ege Bamyasi”, in turco significa “Ocra dell’Egeo”), uscirà in regime di concorrenza perfetta.
Un disco che spiega bene Scaruffi: «Una raccolta cupa e opprimente di brani concisi, gag di cacofonie elettroniche come Soup o raga nevrotici come Spoon (una delle prime canzoni a impiegare una “drum machine”). Con questo disco i Can sembrano però dirigere verso una forma degradata dell’easy-listening languido e funk dell’epoca (Vitamin C, Sing Swan Song). Con questo album i Can riconoscono (acknowledge) finalmente gli esperimenti elettronici del resto del rock tedesco». Bataclan Parigi 22 marzo 1973, di seguito 10′ di Sing Swan Song. Erano concerti lisergici i loro, e se vogliamo, con una forte dose di istinto e casualità. Se poi ammiriamo la performance finale di Irmin Schmidt alle tastiere, viene in mente Jackson Pollock. Era anche questa body music?
Mi limito ad aggiungere che in questo disco, emergono anche ritmo e sonorità che di lì a poco sarebbero diventati legge per generi come l’hard-core (penso agli Hüsker Dü), o per il successivo alternative rock: ne andò in fissa Thurston Moore dei Sonic Youth, mentre Beck fece una cover di I’m So Green. Ascoltare Ege Bamyasi in cuffia, di notte, soli, è quasi un’esperienza horror. Le urla di Damo Suzuki in Spoon, con i rimbombi e i giochi di cambio cassa, sono schegge di inferno vero e proprio che riprendono un thriller televisivo molto in voga nella Germania dell’epoca: Das Messer. Nella descrizione di Scaruffi finisce anche il raga, musica classica indiana che mi è funzionale per presentare l’ultimo disco ’72 di questo Extra: Hosianna Mantra dei Popol Vuh. Anche loro tedeschi, ma con un appeal e un punto d’arrivo decisamente opposto a quello dei Can. E se fino al ’71, si erano dilettati anche loro nell’utilizzo del moog e nel complesso dell’elettronica, temi comuni al krautrock di allora, da questo disco in poi i Popol Vuh abbandoneranno (quasi) definitivamente l’uso dei sintetizzatori, per lasciarsi andare in sonorità classiche, acustiche e in parte anche orientali, senza escludere un primitivo ancoraggio su tematiche religiose, completamente assimilato con il successivo Seligpreisung. Dove i testi dei Popol diventano vere preghiere salvifiche. Lo dice il titolo stesso dell’album, che tradotto in tedesco suona come «Mantra dell’Osanna». E lo dicono i titoli delle tracce. Come questo piccolo atto di fede, il primo Andacht (traccia 6), che in tedesco significa proprio preghiera:
Insomma, misto tra filosofia orientale e cristiana, in cui il messaggio (a partire dall’icona classica di copertina e dai cori cantati della soprano Djong Yun) è una ripetizione di formule magico-religiose. Di Hosianna Mantra rimane anche l’inconsistenza al primo assaggio, con scale costruite dal piano di Florian Fricke, geniali per la loro semplicità tecnica.