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F1 | Storia: Quel sogno mai avverato che si chiamava Greg Moore

Da Tony77g @antoniogranato

Luca SarperoF1Sport.it

11 Novembre 2014  – La Formula 1 lascia le americhe, e ogni qualvolta che il circus arriva nel nuovo continente l’anima racing ti rimbomba un nome nelle orecchie che suona come un’urlo o una rasoiata ai timpani consumati da anni di motori urlanti: Greg Moore.

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Un canadese capace di prendere l’amore viscerale per la Formula 1 di tanti uomini e di farlo suo, plasmarlo, disegnarlo dando ad esso una forma tutta sua. Poco importa se lui in Formula 1 non ha fatto in tempo ad arrivarci. Poco importa se le corse americane sono viste con occhio di superiorità dagli europei. La passione e l’ammirazione non conoscono categorie o fanno differenze. Ci sono: punto e basta.

Era partito dal nulla Gregory William Moore. Per la precisione da una cittadina canadese che aveva più ghiaccio per l’Hockey che asfalto per le strade. Ma poco importava, perchè a Greg importava solo che avessero un motore. L’Hockey c’era anche nel suo Dna, ma preferì le corse. Era promettente in entrambi. Il padre Ric, venditore d’auto, ipoteca casa e attività per appoggiare la carriera del giovane Greg e i risultati si vedono. Nei Kart è una scheggia, e quando passa in Formula Ford vince nell’arco di due anni il titolo di Rookie of The Year e il campionato USAC, senza manco aver ancora compiuto 18 anni. Quando li compie, Moore è già in Indy Light sotto con un’auto privata. Due anni per prendere la mano con il nuovo mondo e poi arriva la chiamata. Jerry Forsythe gli offre un sedile e Moore lo ripaga diventando Campione Indy Light a 20 anni nel 1995 con 10 ( dico: dieci) vittorie su 12 gare. Un dominio.

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Gli inizi nella CART: Nel 1996 Forsythe promuove Moore nella categoria CART (diventata poi Champ Car e infine scomparsa), permettendoli di diventare uno dei più giovani piloti della storia ad aver debuttato nella massima categoria americana a ruote scoperte. Al debutto assoluto per poco non vince davvero. Una penalità per non aver rispettato le bandiere gialle, le costa un risultato che sarebbe stato clamoroso. Chiude la stagione con un secondo posto a Nazareth, terzo a Cleveland e quarto a Toronto. Sarebbe il miglior Rookie dell’anno, ma il titolo va ad Alex Zanardi. Moore comincia a farsi vedere, non solo per il piede, ma anche per la disponibilità e simpatia con tutti. Diventa amico di mezza CART, ma senza cercare raccomandazioni o altro. Cinico e spietato in pista, quanto gentile e scherzoso quando le tute vengono allacciate in vita. Quel numero 99 sul suo muso comincia a diventare un marchio di fabbrica e segno distintivo come gli occhiali da vista che spesso portava sotto al casco. Nel 1997 continua la sua ascesa incontrastata e arrivano anche le prime vittorie. La prima in assoluto è a Milwaukee, dove resiste al forcing di Micheal Andretti nel finale e diventa, a 22 anni, il più giovane vincitore di una gara CART nella storia. Due settimane dopo arriva il bis, fortunoso, e Detroit. Terzo all’inizio dell’ultimo giro, passa i piloti ex F1 Blundell e Gugelmin grazie al fatto che entrambi rimangono senza combustibile. In due gare, Moore conferma tutte le attese che gli appassionati aveva riposto in lui. Alla fine di entrambe le gare, gli altri piloti della CART vanno a complimentarsi con lui manco fossero tutti compagni di scuderia. Moore ha trovato quell’equilibrio tra essere dannatamente “bastardo” in gara e l’essere amichevole con tutti fuori. Franchitti, Papis, Hernandez, diventano amici e formano un gruppo di scorribande nel box. Un clima che in Formula 1 non si potrebbe mai vedere, e che rende ancor più speciale la vita di Moore. A fine campionato è settimo, confermando una progressione sempre crescente.

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L’Europa si accorge di lui: Le vetture di Forsythe erano dei telai Reynard motorizzate Mercedes V8 turbo. La casa tedesca è in piena crescita nel motorsport dopo anni di assenza ed impegnata in molte categorie. Anche se l’impegno nella CART era, per certi versi secondario, non disdegnano di attingere uomini da oltreoceano. Moore è uno di loro. Al Gran Premio del Portogallo del 1996, Greg fa una comparsa nel box Mclaren in veste di semplice ospite. Qui i sogni e le fantasie di molti viaggiano senza meta. L’anno successivo, Moore diventa pilota di riferimento per la Mercedes negli USA ed è chiaro che i viaggi mentali iniziati l’anno prima trovano ulteriore spinta. A fine stagione, salta su una Mercedes Clk GTR nelle ultime prove del GT FIA a Surfers Paradise e Laguna Seca. Moore impressiona, anche qui, per la facilità con la quale si adatta ad una vettura mai vista prima e per come, senza timori, rende la vita difficile ai compagni di abitacolo. Stringe un legame forte con Alex Wurz, suo compagno di vettura, e centrano due splendidi settimi posti. Su di lui si concentrano molti occhi. Alla già citata Mercedes, arrivano anche rumors che danno Frank Williams, nel periodo di debolezza per i piloti CART, molto interessato all’astro nascente canadese. Insomma, Moore ha colpito il cuore di tutti. Poco conta il calo avuto sul finire di stagione 97, il ragazzo ha un piede spaventoso. Giudicare episodi come Detroit o il tocco a muro di Vancouver (qui perse in pratica la possibilità di ambire per il titolo), sarebbe da superficiali. Bisogna vedere un ragazzo che va forte, gia detto, ma che sa gestire e portare al suo limite un motore che sulla carta è in linea con i turbo Honda, ma che in realtà si trova con un progetto destinato a scemare, mentre i turbo nipponici sono nel pieno della loro crescita. Differenze sostanziali se si vuole giudicare.

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Ben oltre l’astro nascente: Ormai Moore impazza a destra e a manca, sulle bocche di tutti. A inizio 1998 è uno degli accreditati principali nella lotta per il titolo, insieme a Zanardi e Andretti. Moore parte col botto, centrando una pole stratosferica a Miami e chiudendo la gara secondo. Arrivano altri piazzamenti, che li permettono di restare sempre li nelle prime posizioni. Rio è la gara che mostra subito il duello tra Moore e Zanardi. Il duello va avanti tutta la gara, con il “Zanna” che sembra averne di più grazie ad un consumo gestito meglio, ma a tre giri dalla fine ecco il colpo di scena. I due sono in scia con Zanardi davanti e Moore dietro. Zanardi si fa sorprendere nelle fasi di doppiaggio del rookie Meier e Moore ne approfitta infilando all’esterno di curva 3 il campione bolognese dopo uno splendido e sorprendente incrocio di traiettorie. A fine gara, Moore sarà leader del campionato. Dopo il sogno di Rio, ci sarà un preoccupante calo di risultati dovuti all’inesperienza (innegabile) di Moore nei confronti degli altri e anche, se non sopratutto, ad un motore Mercedes ormai in caduta prestazionale preoccupante. Zanardi a fine anno sarà campione, mentre a Moore rimane la consolazione della vittoria a Michigan (prima su una 500 miglia) e un quinto posto amaro. Manca la consacrazione a Moore e l’anno buono sembra il 1999. Con Zanardi di ritorno in Formula 1, l’inizio è ancora più col botto rispetto all’anno prima: a Miami ottiene pole vittoria e giro più veloce e grazie ai piazzamenti rimane leader della classifica fino a Nazareth. Cede il passo alle Reynard – Honda e al rookie più devastante di sempre Juan Pablo Montoya. Il resto della stagione, Moore lo passa sempre a centro classifica. Arrivano podi a Milwaukee e Detroit ma i risultati che contano non si vedono. Moore è chiamato alla svolta; decide che è il momento di dire basta al team di Forsythe e legarsi al team Penske anch’esso in piena svolta radicale sia di telai che di motori. Basta con i Mercedes, ormai poco sviluppati e sempre lontano in prestazioni, è il momento di darsi ai nuovi, fiammanti e poderosi turbo Honda. L’accordo arriva in men che non si dica tra Roger e Greg già in agosto. Dopo la firma, Moore appare svuotato. Pensa già all’anno successivo, ma vuole lasciare un bel ricordo a chi ha creduto in lui e ha appoggiato la sua carriera fin dagli esordi. Lo scenario migliore è il circuito di Fontana, California, dove si corre la Marlboro 500. Circuito dove nelle stagioni precedenti Moore ha già ottenuto ottime prestazione.

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31 ottobre 1999 -la fine dei sogni: Fontana è l’ultima prova del campionato, ed è teatro del duello tra Montoya e Franchitti per la conquista del titolo. Con l’incidente a Surfers Paradise, Montoya ha perso la leadership del campionato in favore di Franchitti, ma niente è ancora deciso. Moore, ormai senza speranze iridate, si presenta voglioso di vittoria. Un pò per salutare come si deve il team Forsythe e un pò per scalare la classifica ed evitare un finale di stagione inglorioso. Il week end inizia però malissimo: mentre girava nei box con il suo scooter, Moore urta una vettura e cadendo riporta lesioni ed escoriazioni alla mano sinistra. Forsythe chiama a se Roberto Moreno, in quanto la presenza di Moore rimane in dubbio fino all’ultimo. Dopo varie visite e test, Moore riceve l’ Ok dai medici, ma dovrà partire dal fondo in quanto non ha potuto svolgere le qualifiche. La gara inizia dopo che nella notte un temporale molto forte ha bagnato tutto il circuito. Dopo pochi giri, Richie Hearn è vittima di un incidente che sembra un preambolo a qualcosa di  ben più serio. L’americano scende con le sue gambe, ma immediatamente sventolano le bandiere gialle che portano la conseguente Safety Car. Moore è già risalito in quindicesima posizione. E’ scatenato; vuole la vittoria numero 8 della carriera. Al nono giro, però, arriva l’irreparabile. La vettura di Moore si intraversa all’uscita della curva 2 e prende la via di fuga erbosa resa viscida dalla pioggia delle ore prima. Senza decelerare minimamente, la Reynard numero 99 si impunta su una strada di accesso alla pista riservata ai commissari e si gira lateralmente su stessa, dalla parte del pilota, schiantandosi a oltre 300 chilometri orari contro un muretto di cemento. L’impatto è devastate. La vettura si rompe in due tronconi e ai medici intervenuti appare chiaro che Moore è gravissimo. Pochi minuti dopo, Greg viene trasportato in ospedale ma li non rimane che il macabro compito di dichiararne il decesso. La gara prosegue, ai piloti non viene comunicato nulla. Forsythe ferma Carpentier (compagno di Moore) a scopo precauzionale. Viene fatta entrare in pista la Safety Car, apposta per permettere al medico Steve Olvey di diramare il comunicato: Greg Moore non c’e più. Le cause dell’incidente sono molteplici. In primis viene accusato l’Handford Device, un dispositivo areodinamico montato sull’alettone di tutte le vetture atto a rendere più concitanti le gare ma spesso accusato di causare veri e propri crolli di aderenza improvvisi e incontrollabili. In secondo, viene accusata la commissione medica che permise a Moore di correre nonostante una fasciatura vistosa sulla mano. Terza causa, meno probabile, è quella dell olio in pista. Una foto amatoriale evidenziò anche la presenza si una ruotata sul muretto di contenimento al tracciato proprio nel punto in cui Moore iniziò il suo testacoda mortale. La gara andò a Hernandez e il titolo a Montoya; ma non c’è nulla da festeggiare. Le bandiere a mezz’asta sono il chiaro segno della tragedia che ha colpito il mondo delle corse a stelle e stricie.

Fatalità o meno, Moore era volato via per sempre. Un mago degli ovali che stava crescendo ben oltre le più rosee aspettative anche sui cittadini. “Vi immaginate cosa avrebbe potuto fare Greg con un motore Honda?” ripete in continuazione il suo amico Franchitti che, oltre a tanta amicizia, era in debito con Moore per aver fatto conoscere lo scozzese volante e la sua futura moglie Ashley Judd. Moore era il futuro delle corse canadesi e americane, e solo i destino infame ci ha tolto un pilota che in soli 4 anni di CART ha saputo vincere e far sognare chi aspettava un nuovo canadese volante. Forte, veloce ma anche il ragazzo con quale passeresti la serata a bere birra e a parlare di donne e motori. In fondo erano le cose che Greg amava di più nella vita. Sono passati 15 anni, eppure quel vuoto lasciato non è stato colmato da niente; neanche dalla fine della stessa categoria CART. See ya up the front Greg.

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