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In quel labirinto vasto che è il romanzo di Rabelais non sono poche le fermate, le tracce inutili e le pause un po’ assonnate che si vorrebbero superare d’un fiato, mentre invece si protraggono per intere paginate. Il fatto è che lì dentro c’è di tutto, e che fra tante cianfrusaglie alla rinfusa qualcosina che è di troppo la si trova sempre; ma tutto il resto, però! Tra le perle dell’autore ce n’è una in particolare, che rappresenta pienamente il Cinquecento o almeno quello che il Cinquecento avrebbe voluto essere, nel suo ideale, nonostante le contraddizioni che lo hanno reso così complesso. Sto parlando dell’Abbazia di Thélème. In questo luogo di ‘culto’ si riuniscono uomini e donne in assoluta libertà, senza altri vincoli che un moderato buon gusto e un sano orrore per ogni volgarità. A parte ciò, tutto è permesso: l’amore è libero, così come il pensiero e il godimento della vita in tute quante le sue forme. In questo rovesciamento totale dell’etica ecclesiastica si nasconde in fondo tutto il senso della filosofia del Rinascimento, con la riscoperta del corpo e del valore della paganità, e nello stesso tempo con quel culto quasi ossessivo dell’individuo che si ripercuoterà in molti aspetti della politica. L’edonismo di Epicuro - eudemonismo, veramente, ma così veniva colto in quel momento - si diffonde tra le varie classi sociali, soprattutto nobiliari, e nel suo aspetto più elitario si presenta come un sovvertimento razionale dei valori espressamente cristiani fino ad allora accettati e riconosciuti, concernenti la rinuncia e l’ascetismo, la mortificazione della carne e il senso del peccato. Nell’Abbazia di Thélème tutto questo non funziona, o per meglio dire funziona tutto al contrario: ciò che era legge nel mondo normale qui diventa trasgressione, e viceversa. Sentiamo un po’ cosa ci dice Gargantua: “Anzitutto non bisognerà costruire delle mura attorno, poiché tutte le altre abbazie sono fieramente murate”. Benissimo, questa è la prima. Andando avanti, “poiché in certi conventi di questo mondo è usanza che se v’entra qualche donna (intendo le oneste e pudiche) si ripuliscono i luoghi dove son passate, così ordinò che se un monaco o una monaca entrassero per caso nell’abbazia, si ripulissero accuratamente tutti i luoghi per cui fossero passati”. Impressionante, non è vero? L’abbazia sarà di tutti, tranne che dei legittimi proprietari! “E poiché negli ordini monastici di questo mondo tutto è misurato, limitato e regolato per ore, fu decretato che colà non fosse né orologio, né quadrante alcuno, ma che tutte le opere fossero secondo le occasioni e opportunità; poiché, diceva Gargantua, la maggior perdita di tempo era contar le ore”. È proprio vero! Ed ecco ancora: “Poiché ordinariamente i monaci facevano tre voti: di castità, povertà e obbedienza, fu stabilito che colà si potessero maritare onorevolmente, che ciascuno fosse ricco e vivesse liberamente”. Incredibile, no? Ma sentite ancora questa: “La loro vita non era governata da leggi, statuti o regole, ma secondo il loro volere e franco arbitrio. Si levavano da letto quando loro piacesse; bevevano, mangiavano, lavoravano, dormivano quando ne avevano voglia; nessuno li svegliava; nessuno li forzava a bere, né a mangiare, né a qualsiasi altra cosa. Così aveva stabilito Gargantua. La loro regola era tutta in un articolo:
Fa ciò che vorrai”.
Sì ma allora, mi direte voi, ci riduciamo all’anarchia? Ebbene no, cari signori! Come vi dicevo prima, siamo in pieno Cinquecento. E se il Cinquecento è il secolo dell’edonismo, della riscoperta dell’individuo e del suo corpo, è anche e soprattutto il secolo della misura, della cultura e dell’eleganza. Sentite che belle parole: “Tutti gli uomini liberi, ben nati, bene educati, avvezzi a compagnie oneste hanno per natura un istinto e stimolo chiamato onore, il quale sempre li spinge a opere virtuose e li allontana dal vizio. Coloro i quali con vile soggezione e costrizione sono oppressi ed asserviti, rivolgono quei nobili sentimenti a un obiettivo differente, cioè liberarsi da quella schiavitù; poiché noi incliniamo sempre alle cose proibite e bramiamo ciò che ci è negato. Grazie alla libertà, invece, erano presi da emulazione di fare tutti ciò che ad uno vedevano piacere […]. Mai non furono visti cavalieri sì prodi e galanti e destri, a piedi e a cavallo, sì vigorosi, sì rapidi, sì esperti in tutte le armi. Mai non furono viste dame tanto pulite, tanto graziose, meno noiose e più valenti a ogni lavoro di mano, d’ago, ad ogni arte muliebre onesta e libera”. Interessante, vero? Secondo Rabelais, l’uomo che è libero di esprimersi dà sempre il meglio di sé. Ottimismo o ingenuità? Chissà. Noi non ci crediamo più, ma forse la nostra è soltanto paura. Ci fa più paura la libertà di qualunque costrizione. Per fortuna c’è chi vuol guidarci, anzi è già pronto e non chiede di meglio. Che insuccesso per il povero Rabelais!
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