(Do the Right Thing)
Regia di Spike Lee
con Danny Aiello (Sal), Spike Lee (Mookie), Ossie Davis (“Sindaco”), John Turturro (Pino), Giancarlo Esposito (Buggin Out), Richard Edson (Vito), Ruby Dee (Mother Sister), Bill Nunn (Radio Raheem), Rosie Perez (Tina), Samuel L. Jackson (Love Daddy), Joie Lee (Jade), Miguel Sandoval (poliziotto), Rick Aiello (poliziotto), Martin Lawrence (Cee), Roger Guenveur Smith (Smiley), Frank Vincent (Charlie), John Savage (Clifton).
PAESE: USA 1989
GENERE: Drammatico
DURATA: 114’
Durante la giornata più calda dell’anno, storie di ordinaria intolleranza in un quartiere nero di New York che ruota intorno alla pizzeria dell’italo americano Sal. Nonostante il melting pot sembri tenere, durante la notte un fatto di sangue perpetrato dalla polizia fa esplodere la violenza…
Terzo film di Spike Lee, anche attore e sceneggiatore. Attraverso un racconto corale che ricorda una pentola a pressione destinata a esplodere, Lee parla delle tensioni razziali e decreta l’assoluto fallimento del melting pot statunitense. Film più complesso di quanto sembri ad un primo sguardo: per la prima volta scopriamo che anche i neri sono razzisti, e spesso sono i primi ad essere “contro” l’integrazione. Certo, la colpa è sicuramente della società “bianca” che fino al giorno prima li ha emarginati, ma Lee sembra dire al suo popolo: “se stiamo messi così è anche colpa nostra, perchè come i bianchi anche noi mettiamo ancora il concetto di razza davanti a quello di uomo”. E infatti il regista si sceglie la parte di Mookie, probabilmente il personaggio più squallido della sua carriera da attore, colui che dovrebbe fare la cosa giusta e invece fa quella più sbagliata possibile, ovvero innescare l’esplosione. Nonostante uno sguardo affettuoso che raramente professa giudizi, alla fine gli unici personaggi positivi sono due vecchi neri e un italiano. Filmando la vicenda in una New York dal vero ripresa come se fosse un teatro di posa, Lee mostra una maturità tecnico-artistica inaspettata. Basti pensare al modo in cui riesce a trasmettere la calura anche a livello visivo – inquadrature sghembe e allucinate, filtri rossi e gialli (mirabolante la fotografia di Ernest Dickerson) che sembrano “bruciare” la pellicola, continui indugi sul sudore e sulla condensa delle bibite ghiacciate – o a una sequenza geniale come quella in cui, rivolti verso la macchina da presa, personaggi di etnie diverse sbraitano il loro odio verso gli altri; è un odio “circolare”, in cui tutti odiano tutti: il nero odia il bianco, il bianco odia il nero, il portoricano odia l’italiano, l’italiano odia il cinese, eccetera, fino a quando tutti sono odiati da qualcheduno e odiano qualcun altro. Film troppo parlato? Forse, ma i dialoghi sono ottimi, e lo stile di Lee – che ricorre a piano sequenza e profondità di campo e rispetta le unità aristoteliche del racconto – è fresco e funzionale all’intreccio. La colonna sonora mescola il pezzo di denuncia sociale Fight the power dei Public Enemy e le ottime musiche originali di Bill Lee, padre di Spike. Attori strepitosi. Ha un solo difetto, e bello grosso: con le due citazioni finali, una di Martin Luther King contro la violenza e una di Malcolm X che la promuove se intesa come autodifesa, Lee rifiuta di prendere una posizione e si rifugia così in una vaga ineluttabilità che stona con le immagini viste nel film, in cui è invece l’individuo (e il peso delle sue azioni, come nel caso di Mookie) e determinare l’andamento – positivo o negativo – delle cose. Comunque da vedere.