Lacrime che sgorgano abbondanti fino a formare fiumi, espatriati nostalgici che cercano nel vento o nel volo degli uccelli notizie della patria lontana, cuori palpitanti da stringere nel pugno, popolani che intagliano nel legno la bara del poeta... Il fado è un genere di musica in cui abbondano le immagini barocche del dolore, del lamento per un destino crudele (il fatum, appunto), spesso innestate da scrittori colti su strutture musicali armonicamente semplici, che quasi mai sfuggono alla polarità degli accordi di tonica e dominante, poi abbellite dai gorgheggi del cantante o dai trilli della tipica chitarra portoghese. Le cose non sono andate sempre così nella sua storia, e ora che la canzone popolare di Lisbona è entrata nella lista dell’UNESCO tra i beni immateriali da preservare, in Italia se ne possono ripercorrere i due secoli di vita recuperando il bel libro di Rui Vieira Nery pubblicato da Donzelli nel 2006: Il fado. Storia e cultura della canzone portoghese (trad.: V. Castagna). Testo che, insieme a Il fado di Coimbra (Besa 2008) di Carlo Giacobbe, veniva a colmare una lacuna notevole. E se perfino in Portogallo manca una soddisfacente bibliografia critica sul tema è perché l’idillio tra la generalità dei portoghesi e il fado è cominciato tardi, ma l’interesse dell’ambiente accademico (nonché politico) verso questa musica è arrivato più tardi ancora. Sulle controverse origini del genere pare che gli studiosi, messe da parte certe riserve più campanilistiche che musicologiche, abbiano raggiunto un accordo: pur avvolto nella bruma della memoria (per citare l’inno nazionale) il fado sarebbe sbarcato in Portogallo insieme alla corte portoghese di ritorno da Rio de Janeiro, dove si era rifugiata nel 1807, mentre in Europa infuriava la tempesta napoleonica. La prima testimonianza lessicografica spetta a un geografo veneziano, Adriano Balbi, che usa il termine per indicare un genere di ballo di origine afro-brasiliana. L’espansione di un intermezzo lirico all’interno di queste danze forsennate e sensuali produrrà la canzone popolare di Lisbona, che si diffonderà inizialmente nei quartieri più malfamati e in quelle “case di fado”, come si chiamano ancora oggi i ristoranti dove i fadisti si esibiscono davanti a lunghe tavolate di turisti, ma che all’epoca dovevano somigliare più a quelle che in Italia, dopo la legge Merlin, saranno note come “case chiuse”. È da questo ambiente ai margini della legalità che emergono le prime figure mitiche, come la Severa, sorta di Carmen e Traviata lusitana, morta apoplettica e senza sacramenti (scriverà il suo parroco) all’età di 26 anni. Oppure una tal Carlotta Scarniccia, Escarniche, lucciola luso-italiana di buona famiglia (da cui puntualmente sarà diseredata) che nell’800 cantava “splendidamente” accompagnandosi al pianoforte e alla chitarra. L’irresistibile ascesa di questo genere musicale dalle bettole al teatro di rivista e poi alle sale da concerto e agli studi d’incisione di mezzo mondo è un esempio di fruttuosa collaborazione fra intellettuali e popolo, per dirla con una formula gramsciana, ma anche di sagacia politica, per quel che riguarda l’uso propagandistico che ne farà la classe dirigente. Concedendomi una nota arbitraria e personalissima, da leccese trapiantato a Lisbona, direi che mi risulta difficile guardare alla storia sociale del fado e dei corteggiamenti da parte della politica (anche attuale, come quando si sfrutta il riconoscimento dell’UNESCO per provare a risollevare il morale a un popolo tartassato dalla crisi del debito sovrano) senza scorgere in filigrana le evoluzioni della pizzica, il ballo terapeutico salentino che da fenomeno peculiare del tarantismo, a suo tempo magistralmente descritto da Ernesto De Martino, trova ora ampia accoglienza presso pro loco, assessorati e massmedia locali, cooptato persino in progetti di dubbia utilità pubblica come l’istituzione di una fantomatica “regione Salento” indipendente da Bari.
Tornando al Portogallo, sappiamo che per anni, sotto il salazarismo, la mentalità più bigotta cercherà di inchiodare l’intera nazione alle famigerate “tre effe”: Fado, Fatima e Futebol. Ma è nelle pieghe dei riconoscimenti ufficiali che si intesse un discorso culturale capace di andare sempre oltre la retorica di contorno. Sui tanti nomi, di cui il libro di Rui Vieira Nery è prodigo, spicca ovviamente quello di Amalia Rodrigues, ancora oggi la fadista più famosa nel mondo, malgrado una giovane e agguerrita generazione (Ana Moura, Camané, Cristina Branco, Mariza, Misia...) sia emersa negli ultimissimi anni. Furono proprio il carisma e il talento di Amalia ad attirare l’attenzione di musicisti come Alain Oulman e a sdoganare nell’industria discografica poeti anche dichiaratamente antifascisti, come Alexandre O’Neill o l’esule socialista Manuel Alegre (lo stesso Oulman, arrestato nel 1966, “se la caverà” con un foglio di via, grazie alle sue origini francesi). Da queste collaborazioni verranno fuori canzoni memorabili, alcune delle quali mettevano in musica e portavano alla radio o sul giradischi sonetti di Camões, il poeta nazionale del sec. XVI; un po’ come se il nostro Dalla, oltre a Roberto Roversi, avesse cantato anche Dante e Petrarca. Fu la struttura semplice, a suo modo arcaica, del canto portoghese a permettere certe peculiari trasmutazioni, ma grazie a tutto un lavoro sulla parola poetica che trasformò una tradizione anonima e popolare in canzone d’autore. A ben vedere, è proprio un celebre fado che ce lo dice: i poeti del mio Paese sono tronchi della stessa radice.