Il problema, nel recensire un libro autobiografico, è il timore che la critica al testo vada a impelagarsi in qualcosa di personale. Questo lo so io, lo sapete voi e immagino lo sappia anche Massimo Gramellini, autore di Fai bei sogni(Longanesi, 2012). Tagliamo la testa al toro: sarebbe stato meglio lasciare la storia narrata, autobiografica e impregnata di lacrime facili ai nostalgici racconti in famiglia: quelli del due di novembre, al ritorno da un triste giro di saluti al camposanto. O, per essere più chiari, se questo romanzo autobiografico l’avesse scritto un Mario Rossi a caso, sarebbe stato pubblicato da un editore a pagamento.
Gramellini ci conduce per mano, lieve come la noia di un pomeriggio di pioggia, lungo la sua infanzia: età infelice perché privata della povera mamma, una signora ammalata di cancro, un evento tragico che molti di noi conoscono. Non vi racconterò le mie disgrazie, fermiamoci qui. Questo lusso lo lasciamo a Gramellini. Lui può.
Solitamente mi occupo di gialli, ed è in quest’ottica che leggo qualunque libro. Anche nel romanzo di Gramellini c’è un dubbio che vorrebbe essere lancinante. Per noi, come lo è stato per lui.
Per quarant’anni gli hanno taciuto le modalità della dipartita di mamma: gliel’hanno raccontata e lui se l’è bevuta: era più facile, meno doloroso. Mettetevi, allora, nei panni di un giallista: se la signora non è morta di malattia, se non è stato un omicidio — questo non è un thriller — e se non è stata una disgrazia... cosa rimane? No, non ve lo dico, non voglio sciuparvi la sorpresa. Del resto, siete abbastanza intelligenti da capire che, se davvero c’era qualcosa da raccontare nella vita di Gramellini — la sua, che non è quella di Mario Rossi —, rimane una sola possibilità: e lui la sbatte a pagina 186, immortalata in un articolo dell’epoca. Uno scherzo del genere a mia madre non l’avrei mai fatto.
Diamo un’occhiata al libro. Si presenta impaginato bello stretto, ha quasi l’aspetto di un breviario, cosa che certamente avrà ringalluzzito i lettori della domenica: leggere un testo così smagrito consente d’arrivare in fondo con molta agilità. Se alla Longanesi volevano farla semplice, ci sono riusciti. Il lettore pigro si sentirà Speedy Gonzales — «Non mi è mai successa una cosa del genere, ho letto duecento pagine in due nottate!» — e consiglierà il libro alla portinaia, che a sua volta — «Sapesse, ho tanto pianto...» — ne parlerà all’inquilina del quarto piano.
La sviolinata di Fazio a Che tempo che fa è stata trascurabile: il libro si vende da solo.
E l’incipit? Credo sia il peggiore in cui sono incappata negli ultimi anni. Pagina 9, «Come ogni anno, l’ultimo dell’anno sono passato a prendere Madrina per accompagnarla dalla mamma». Rileggetelo con calma, rileggetelo di nuovo. Anche un editore a pagamento avrebbe storto il naso.
La narrazione mi si presenta per ciò che è: facilitata, basterà unire i puntini... Eccoci allora a pagina 17, con «i fuochi di mezzanotte che smacchiavano il buio della stanza» e il giovane Gramellini, rintanato sotto le coperte, che sta «con gli occhi accesi».
La vicenda è narrata dal piccolo Massimo, che all’epoca aveva nove anni, ma il Gramellini adulto non tiene conto che i suoi lettori ne hanno parecchi di più. Qualche tempo fa ho recensito, per Sul Romanzo, Cielo di sabbia di Joe R. Lansdale (Einaudi, 2011).
Anche lì, la storia è vista con gli occhi di tre ragazzini, ma il pubblico non viene trattato da lettore di moderato comprendonio. Tutto merito di Lansdale, certo, ma da Gramellini avrei preteso qualcosa di meglio.
Per non dire delle battute inserite per sdrammatizzare il tutto, quasi l’autore di Fai bei sogni si vergognasse – mai abbastanza, per quanto mi riguarda – di scriversi addosso. Sono trovate che non fanno ridere, ne ho apprezzato una soltanto, sta a pagina 50. L’unica tra tante, tutto il resto è noia e lacrimuccia all’occhio. Infatti, «Almeno David Copperfield aveva una zia. Io mi sarei dovuto accontentare dei quattro fratelli maschi della mamma». A pagina 37, il dramma mi appare persino peggiore: non solo Gramellini ha avuto una vita sfortunata, degna ovviamente d’essere raccontata, ma persino più iellata di certi mostri sacri della sfiga. Ora, non so voi, ma quando qualcuno si piange addosso in maniera tanto convinta, pur con tutte le ragioni del caso, io storco sempre il naso.
A pagina 45, il vuoto lasciato da mamma viene colmato in qualche modo: «Finché arrivò Mita, la tata incaricata di spolverarmi la vita», la rima è molesta. Finalmente – per lui e per chi legge –, Gramellini cresce, con questo vuoto nel cuore e con questo vuoto nel testo. «La saggezza doveva vedersela con la resistenza tenace del cuore, che si era appena affacciato alle stelle e non aveva alcuna intenzione di ritornare nel suo rifugio antisismico», a pagina 118 mi stavo davvero perdendo d’animo, mi sono detta che poteva soltanto andare peggio e così è stato.
Troviamo personaggi che dicono banalità simili: «Mi fa paura l’idea di sprecarla. Se la morte è un viaggio, immagino che la vita sia il prezzo del biglietto», a pagina 152. O, a pagina 160, la cagnolina di Gramellini che risulta essere, anche lei, degna di nota: «Basta che qualcuno nei paraggi alzi troppo la voce perché lei vada a nascondersi in un angolo inaccessibile dello sgabuzzino. Ma se due persone si abbracciano all’interno del suo campo di ricezione, sentiranno uno spostamento d’aria intorno alle caviglie. È l’angelo dell’amore che sventola la coda e fa le linguacce, felice».
A mio parere, un libro che si poteva evitare. Evitare di leggere? Anche, ma l’avevo promesso a Sul Romanzo.
«Non è semplice rimanere orfani nel paese dei mammoni. Certo, è anche il paese dei vittimisti e la perdita precoce di un genitore, se ben esibita, può diventare un’aureola e un certificato d’impunità. Però per il ruolo della vittima bisogna esserci tagliati» (pagina 43) e senza dubbio Gramellini non ha dovuto impegnarsi troppo.