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Fallo con parole tue

Da Sdemetz @stedem

fallo con parole tue - foto da foto di R. Doisneau

Trovare il proprio linguaggio è una cosa maledettamente difficile. Me ne accorgo quando mi metto a scrivere un post per questo blog. La testa si riempie di frasi fatte, di modelli (perché quando si scrive di management bisogna essere seri e rigorosi!), di usi comuni e parole talmente diffuse che sembrano mie, ma non lo sono. Leggo qualcosa e il linguaggio dentro quel qualcosa e dentro tutti i testi simili esce nel mio post. E allora devo fare un lavoro di post-produzione: tagli e pulizia per rimuovere tutte le patacche che mio malgrado escono dalla tastiera del computer.

Il problema è serio e non riguarda solo me e il mio blog.

Quest’estate ho letto un articolo sul Corriere della Sera che analizzava il linguaggio legato al calcio. Scriveva Tommaso Pellizzari:

Tutto comincia con un giornalista che utilizza una determinata parola o un determinato modo di dire, spesso nella convinzione di essere forbito ed elegante. Il calciatore e l’allenatore, in genere (e quasi mai per colpa) sono cresciuti senza mai potere studiare troppo (a differenza, in teoria, dei giornalisti) e quindi senza poter cogliere l’assurdità quando non l’inappropriatezza di un determinato termine. E così lo ripetono a loro volta nelle interviste (o nelle telecronache, per i calciatori che hanno la fortuna di diventare seconde voci), autorizzando gli utilizzatori iniziali e quelli successivi a convincersi che quel modo di esprimersi sia corretto, efficace e pure raffinato.

La stessa cosa accade nel management; dove spesso gli utilizzatori del linguaggio specifico sono sì laureati, ma preferiscono non perdere troppo tempo nella ricerca di parole proprie, corrette e italiane. E tutto si appiattisce.

Non è solo questione di parole.

Il management usa un suo linguaggio, allo stesso tempo però il management è linguaggio, fatto di comportamenti, azioni, e scelte. In questi giorni mi sono trovata a pensare che la stessa fatica che si fa nel dire le cose con parole proprie, consuma energie anche nella ricerca di comportamenti propri.
Leggiamo libri su libri, post su blog, testi che ci spiegano quali sono le regole d’oro per fare questo o quello. E cerchiamo di applicare tutti questi insegnamenti. Spesso, oltretutto, questo “questo o quello” è detto con parole inglesi, il che ci rende ancora più estranei a ciò che dovremmo fare.

Il punto per me sta proprio qui: l’estraneità.

Quando, scrivendo o soprattutto rileggendo, trovo che la voce nel testo non è la mia, provo una profonda frustrazione e mi impongo il silenzio. Un silenzio in cui libero la mente da tutto ciò che non mi appartiene. Ascolto solo il battito del mio cuore e il mio respiro. E poi intervengo con gomma e forbice e raddrizzo le cose. E se pure il contenuto non lo sento mio, archivio il testo per tempi migliori.

Questa stessa operazione va fatta nel management. Soprattutto quando si ha a che fare con un parolone sempre più vuoto da quanto è usato: leadership.
Da bambini siamo tutti spontanei e liberi e veramente noi stessi. Da giovani si tende a imitare modelli. E più avanti non sono i modelli a stonare le azioni, ma sono le sovrastrutture, le cautele, le preoccupazioni, che portano a non agire per come si è. Paura di rovinare la reputazione, paura di offendere, paura di perdere qualcosa, paura, insomma. Oppure: arroganza. Arroganza per dove si è arrivati. Si fa il capo, senza esserlo, nelle riunioni, con i collaboratori, e si recita un ruolo. O ancora: le pressioni esterne ti dicono come devi agire. Sii duro. Sii simpatico. Sii severo. Sii un motivatore… Aiuto!

Ma le maschere prima o poi cadono. Sempre.

Ascoltare la propria voce soprattutto quando si guida un’organizzazione o un pezzo di un’organizzazione è importantissimo. Le letture servono per trovare chiavi e soluzioni. Per essere ispirati. Ma poi ci vuole il silenzio. Il battito del cuore deve parlare.
Non c’è una ricetta. Ognuno ha i propri metodi. La mia è semplice, ma spesso molto faticosa. Mi isolo con la mente, pulisco lo spazio intorno a me. Rimango sola. E mi elenco uno a uno gli obiettivi che nel lavoro ci siamo dati. E poi penso a cosa mi piace e a cosa non mi piace. A volte ci rimango a lungo dento questa solitudine. Poi finalmente vedo il paesaggio così come dovrebbe essere. E in modo naturale lascio al mio battito il piacere di guidarmi.


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