Scriveva Giuseppe Rensi nel 1933 ne Le ragioni dell’irrazionalismo pubblicato da Alfredo Guida: «Il 27 agosto 1801 Hegel teneva a Iena una dissertazione in cui dimostrava che non vi potevano essere pianeti tra Marte e Giove. Ciò significava: il concetto, l’idea, la ragione impersonale, l’insieme di principi logici originari, il cui sviluppo forma il mondo, contraddirebbe sé stesso se vi fossero pianeti tra Marte e Giove… Un’impossibilità logica perché urta contro quella ragione assoluta che costituisce l’essenza del mondo; perciò se vi fossero pianeti tra Marte e Giove, questo fatto costituirebbe una non-ragione, un’irrazionalità».
Come poteva Hegel asserire questa sua granitica certezza? L’analisi scaturiva dal procedimento mentale pseudo-logico che vede il “fatto” farsi ragione. Purtroppo il fatto derivava a sua volta da un’insufficiente conoscenza che il filosofo aveva dell’astronomia. Infatti, alcuni mesi prima, precisamente il 1° gennaio 1801 Giuseppe Piazzi, aveva scoperto tra Marte e Giove, Cerere Ferdinandea, il pianeta nano il cui nome esaltava una dea romana.
L’incognita x dunque diventa fatto razionale saltando dal mondo dell’impossibile alogico a quello del possibile logico. Il razionalismo hegeliano a questo punto, visto che Cerere è scoperta, è costretto, in virtù della sua formulazione, ad ammetterne la necessità razionale, laddove prima, non essendoci certezza di esistenza, la negava. In pratica il razionalismo agisce soltanto su quello che c’è. Qualunque cosa sia, se esiste è ragionevole. La pretesa razionalità si riduce e si risolve completamente nella constatazione del fatto esistente, in modo aprioristico e assoluto. D’altra parte però, secondo lo stesso Hegel la storia umana procede come procede l’istinto, perché mentre gli uomini lavorano per se stessi e vivono, sono contemporaneamente «gli strumenti di qualcosa di superiore di cui nulla sanno». Lo spirito o Vernunft è qualcosa di cieco e oscuro, dai confini vaghi e misteriosi. E il rassicurante espediente di dare il nome di ragione assoluta all’indeterminatezza da cui scaturiscono le cose è soltanto un tentativo di categorizzazione umana. Una volontà ordinatrice che corrisponde all’esigenza di soppressione del caos. Siccome una cosa è, allora ci si rassegna, voltando le spalle alla propria individuale ragione, dicendo, se è, allora dev’esser per forza ragione, dev’essere ordine, razionalità.
La kantiana coscienza sovrana del soggetto? Per Hegel è un’insulsaggine. L’individuo deve sottoporsi alla volontà di un imperativo esterno, ad una coscienza extrasoggettiva, alla volontà dello Stato per esempio, e identificarsi con questa entità esterna, accettandola completamente. La soggezione diventa così libertà, la schiavitù, ragione. L’individuo che persiste a mantenere una volontà separata e propria ha solo una volontà naturale e non ha ancora trovato l’elemento razionale. Quest’ultimo si può trovare soltanto con la sottomissione alla volontà superiore dell’ambiente sociale, espressa nei costumi, nelle istituzioni, nei rapporti. L’individuo è solo una pedina della volontà universale. Una filosofia dell’autorità dunque come unica libertà possibile. Tutto quel che è, domani, con una nuova scoperta, muta. Le nuove informazioni contraddicono le vecchie, le sostituiscono, incanalate però nella stessa logica astratta del realismo ontologico. La filosofia post-hegeliana è profondamente influenzata dal nucleo filosofico di tumultuose contraddizioni continue. Il senso di razionalità del fatto e nello stesso tempo di costante negazione di ciò che è, dà l’idea di un mondo pervaso dalla distruzione. Però questo nucleo originario di realtà ontologiche perde, nelle speculazioni successive, la maschera del razionalismo. Schopenahuer rovescia finalmente l’affermazione di Hegel e sostiene con forza che tutto ciò che è reale è irrazionale. Al posto della ragione ci mette una cieca volontà. L’identificazione ragione realtà di stampo hegeliano è difatti, nella sostanza, pericolosa. Aborrendo l’attenzione kantiana alla coscienza individuale, qualsiasi azione in disaccordo con la coscienza sociale diventa per Hegel decadenza, dissolvimento, anormalità. Anche il positivismo italiano, Vico, Stellini, Romagnosi, Cattaneo, Gabelli, segue la stessa linea hegeliana di diffidenza verso le «latebre della propria solitaria coscienza» a cui «non bisogna credere». «Tutta l’attività morale è contenuta, stabilita, manifestata nell’incivilimento». L’arbitrio umano non è degno di fede, è “incertissimo”. La ragione subbiettiva taccia dunque di fronte all’onnipotenza della ragione obbiettiva a cui la subbiettiva deve inchinarsi, per essere vera ragione. Perché la ragione obbiettiva è quella che manifesta la realtà. Le due ragioni così si identificano fino a confondersi l’una nell’altra. In pratica razionalismo del fatto più teoria della continua distruzione dello stesso nella logica delle contraddizioni sociali e politiche, approdano alla conclusione che la pazzia del singolo destruttura con la forza il vecchio ordine, diventando realtà e ragionevolezza. Se la religione propone favole accettate dai più e istituzionalizzate, diventa razionalità e verità. Se l’idea di un folle assume valenza sociale, egli non sarà più folle ma un rivoluzionario che riordinerà il mondo secondo ragione. La razionalità a questo punto dov’è? Nel costume, nelle pratiche seguite da tutti, nell’idea di Dio? A volte le tradizioni consolidate sono mostruose ed assurde. Il cannibalismo, per esempio, presso certi popoli è pratica consolidata, eppure la coscienza dell’uomo “evoluto”, ne percepisce tutta l’aberrazione. Allora la razionalità risiede nella coscienza individuale? L’individuo che contesta la società può essere un dissociato, un eccentrico e non è detto che propugni una ragione migliore di quella ufficiale. La ragione dov’è? Forse molto semplicemente non c’è.
«Né l’universalità dell’azione, né la sicurezza, chiarezza, ed evidenza del giudizio soggettivo, ci da dunque il criterio della razionalità», afferma Rensi. «Quand’anche un costume fosse nella ragione contro l’individuo o viceversa chi potrebbe determinarlo? E perciò chi può dire e come si può dire dove sia la ragione?».
La ragione come la verità sono dee volatili, impalpabili che si muovono su molti piani contrapposti, che aleggiano su sogni di menti diverse e cambiano per forza di cose forma e colore. Le ragioni individuali sono prismi di cui è davvero difficile catturare i raggi. La ragione assoluta è accettata socialmente soltanto per un curioso caso del destino bizzarro. Se ad un qualsiasi sposo diceste che la moglie aspetta un figlio per opera dello Spirito Santo, non ci crederebbe, a meno che non fosse Ser Ciappelletto redivivo, un infelice idiota. Però il medesimo sposo va in Chiesa la domenica ad adorare un bambino nato da Madre Vergine. Tutto questo è accettato tradizionalmente, è un fatto, ma è davvero razionale? Ed è logico che Giulio Andreotti che fino alla primavera del 1980 ha avuto senza ombra di dubbio, incontri e contatti certi e documentati con i boss della mafia, venga poi assolto per uno strano scherzo legale che si chiama “prescrizione”, confuso con “assoluzione”?
Ed è razionale che un ministro del lavoro, reddito milioni di euro all’anno, versi lacrime all’avvio di una manovra finanziaria che chiede sacrifici economici agli italiani? Se poi il suddetto ministro che teorizza la morte del “monotono” lavoro fisso, insegna nella stessa Università dove guarda caso, lavorano marito e figlia, la questione rasenta l’assurdo.
Gli esempi che dimostrano le ragioni dell’irrazionalismo sono infiniti come i mondi possibili. Le applicazioni pratiche della filosofia appaiono illimitate. Siamo figli dell’irrazionale che si mette una maschera e recita per tutti noi nel teatro delle finzioni.
Ai prossimi spettacoli dunque, se saremo vivi.
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