oh, sì sì
Sarà per una delle copertine, quella classicamente bianca della ISBN, solo con lo sbaffo rosso di una barchetta sul fondo; sarà per la polvere e il caldo che ti investono fin dalle prime pagine, con quella strada persa nel nulla che ricorda un’altra strada e un altro nulla; sarà per i due ragazzi seduti su un’Ape sgangherata che ne richiamano altri due su un motorino, e tutti cercano di tornare a casa o di accompagnare qualcuno a casa; sarà per il Sud che ti salta addosso appena cominci a leggere; sarà per quei dialoghi così chiari e netti, anche se mai segnati dalla tradizionale punteggiatura; sarà per tutto questo, ma all’inizio viene da accostare il romanzo di Luca Giordano ai western pugliesi di Omar di Monopoli.Ma la scrittura è differente, e poi lasci perdere ogni confronto perché la storia ti prende e scivola, anzi, frana, verso la conclusione, e ti lascia meravigliato di come in poche ore e senza sforzo ti abbia portato alla fine.
Ci sono molti richiami che solo ora, razionalmente, vengono a galla: l’apparente (e volontaria) lontananza dalla civiltà di una famiglia che si autogestisce potrebbe suggerire l’accostamento ai ragazzi del “Signore delle mosche”, e al padre padrone di “Come Dio comanda” o ai vecchi (pre)potenti reggitori, di nuovo, di Di Monopoli; l’ambientazione isolana, con tanto di desiderio di fuga, può ricordare persino la Morante e qualche film pieno di sole e tragedie e respiri trattenuti; sì, tutto questo, dopo.
Ma mentre si legge, si pensa soltanto a Damiano e a Salvatore, al padre che mette paletti chiarissimi alle loro vite, accettati e respinti nello stesso tempo: limiti accolti come naturali, e intanto si cerca il modo di aggirarli o superarli. Piano piano, il romanzo prende corpo: i brevi capitoli in corsivo che intervallano la storia trasportano in un altro punto di vista (ed è proprio un tuffo brusco, improvviso, riuscitissimo, da una visione tutta esterna, da lettore, a una che nasce dal cuore di uno dei protagonisti, con uno scarto di scrittura lieve e bellissimo) oppure ricostruiscono le vicende di Mario, il padre, che prendono forma, e lui si delinea e, in qualche modo si giustifica, mentre si è in un altro tempo, in un passato nel quale altra era la vita, altre le speranze. Sono questi squarci che correggono le nostre impressioni sul padre, sorprendono per i cambiamenti che le vita reclama, aprono piano piano una finestra sul perché di certe decisioni, anche se saperne il perché non ci fa com-prendere davvero certe decisioni, certe azioni. E (forse) è questo di cui si sente la mancanza: un respiro più ampio sulle singole storie, una comprensione più meditata sull’evoluzione di alcuni personaggi, primi fra tutti padre e madre, ombra sempre presente anche se tenuta accuratamente nascosta. Insomma, è come se, alla fine, tu volessi leggere di più, avere più pagine in cui perderti, saperne di più, e invece non ci sono riposte.
Nessuna risposta nemmeno allo strappo finale, alla sospensione un po’ sbalordita, un po’ disperata con la quale l’autore ci lascia.
Una bella, pulita, nitida scrittura per una storia aspra e violenta.