Stavamo finendo il pranzo. Era un pranzo normale, niente di eccessivo, qualche portata, un po’ di vino in tavola. Perché uno si aspetta che gli avvenimenti importanti vengano preceduti da segnali inconsueti o singolari, e invece ogni evento è così naturale, che diventa una specie di legittimo prolungamento delle cose.
Viola era assente, quel giorno. Non mi guardava neanche.
Affondava il cucchiaio nel sugo di lepre e mescolava sempre per qualche minuto prima di riportarlo alla bocca. Era lì, ma altrove. Cosa le passasse per la testa non lo so dire e ad essere sincero nemmeno mi interessava. I momenti di silenzio ormai sono così preziosi che si rinuncia perfino a motivarli pur di non distruggerli con un “perché”.
La guardavo, immobile, nel suo meccanico sopravvivere. Avevamo abbandonato la fantasia ormai da troppo tempo. Fu una bambina a spiegarmi cosa fosse la fantasia, qualche anno prima. Chi meglio di lei avrebbe potuto saperlo? “è una borsetta da cui puoi prendere di tutto.
Qui, per esempio, ho due rossetti e una bottiglia di quel vino che bevono i grandi.”, fece per prenderli da una minuscola pochette che nella mia realtà non conteneva nulla, poi mi guardò, “Ne vuoi?”. Dio solo sa quanto avesse ragione. Avevamo dimenticato il potere di creare la vita.
Capitava spesso di chiedersi per quale motivo ci fossimo ridotti in quello stato. Non poche volte ho dovuto fare un passo indietro prima di riguardare Viola negli occhi. Perché ci eravamo scelti? Mi innamoro sempre dell’ambizione prima di chi la nutre, di un sorriso prima di chi lo indossa e lei mi aveva rapito con la lunghezza del suo sguardo, con la sua luminosità.
Ma c’era di più. Era l’unica persona al mondo ad aver messo i bastoni tra le ruote a ogni mia scelta. Mi costringeva a scoprire nuove strade, a curiosare in un altro me stesso, perché un nuovo percorso è necessario quando la via principale è interrotta.
Le dovevo tutto. La combinazione tra il suo perenne boicottaggio e la mia orgogliosa ostinazione ha fatto di me quello che sono. Le devo tutto. Ecco perché l’ho scelta.
D’improvviso Viola iniziò a parlare, come se volesse continuare un discorso già avviato da ore. Dava fiato alla bocca senza una logica e nell’affanno di fendere l’aria con un po’ di voce scopriva di perderlo, il fiato. Parlava senza comunicare. Fu la confusione percepita dal mio sguardo a porre un freno al suo nervoso gioco di sillabe impazzite. E allora respirò. Respirò, prima di vomitare un chiaro e netto “sono incinta.”
Incinta. Questa parola giunse al mio cervello come il suono di un gong. La sentivo rimbombare ripetutamente. In un attimo si gelò il sangue e l’attimo dopo un bollore improvviso mi pervase dalla testa ai piedi. Sembrava che ogni cellula del mio corpo volesse fuggire via, quasi fosse una forma di rispetto: lasciarmi solo, permettendomi di riflettere. Ero fuori dal mondo, lontano perfino da Viola.
A tu per tu con mio figlio in una strana dimensione temporale.
Incinta. Incredibile come in sette lettere, accostate per di più in maniera non troppo armoniosa, si celi un totale sconvolgimento della vita. Non è giusto. Voglio dire, non c’è proporzione. Una parola, due vite rivoluzionate.
Eppure era tutto ciò che avevo sempre desiderato.
Il problema, perché c’è sempre un problema, era quel “sempre”. Il mio “sempre” era un passato a cui non appartenevo più. Un cumulo di ore di un “io” incapace di volare, cullato dalle certezze della routine e con un orizzonte troppo lontano per sconfiggere la pigrizia e guardarci oltre.
Un figlio era la scusa perfetta per evadere dalla prigione di monotone comodità costruita e curata con le mie stesse mani. Sarebbe stata sufficiente la sua nascita per ricordarmi che perfino io sono stato bambino, un giorno; anch’io ho immaginato oggetti inesistenti e ho inventato me stesso milioni di volte per il solo gusto di giocare.
E il viaggio di ritorno dalla fantasia al mondo reale non è mai stato un gran peso perché con quegli occhi di bambino la vita era altrettanto favolosa.
Viola è stata la mia salvezza. Ha saputo insegnarmi ad aprire la mente, a cancellare l’uomo insignificante che le avevo presentato.
In pochi istanti tornai lucido. Osservai la strage di mollica di pane commessa dalle mie dita criminali durante il flusso di pensieri. Ero deciso. Ascoltai il respiro della pelle di Viola fino a sentirci battere i due cuori.
Le chiesi di abbracciarmi, mantenendo gli occhi fissi sulle sue pupille umide.
Amavo il mio nuovo “io”.
La strinsi a me. Fu un attimo. Poi un altro, poi un altro ancora. Estrassi la lama tre volte prima di guardare il suo ventre sfigurato nel sangue.
Viola aveva scoperto me stesso, mi aveva reso in grado di scegliere la vita senza esserne guidato nell’inconsapevolezza. Un bambino avrebbe richiesto totale devozione e fui pervaso dal terrore di abbandonarmi ancora una volta, di riperdermi in quella vecchia e penosa imperfezione.
Chiusi gli occhi della donna che aveva aperto i miei.
Chissà cosa avrebbe detto mio figlio sulla fantasia…