Nel 2012 i paesi dell’Unione Europea - esclusi Regno Unito e Repubblica Ceca - hanno firmato un patto di bilancio, noto come "fiscal compact", che prevede il divieto per il deficit strutturale di superare lo 0,5% del Pil nell’arco di un ciclo economico, e un percorso di diminuzione del debito pubblico in rapporto al Pil: che dovrà scendere ogni anno di 1/20 della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia del 60%.
Per i meno abili in aritmetica significa che, se il PIL Italiano rimanesse fisso, il deficit complessivo dovrà ridursi del 5% annuale per i prossimi 20 anni: con un debito pari a 2.067.500 milioni di euro significherebbe abbattere il debito di circa 47 miliardi di euro l’anno, opzione sostanzialmente impossibile perlomeno in questa contingenza.
In realtà, se la si analizza matematicamente, questa regola sul debito è meno severa di quanto non appaia in prima istanza e certamente meno difficile da rispettare rispetto a quella relativa all’obbligo di pareggio di bilancio: se in effetti questo nodo venisse rispettato non si genererebbe nuovo debito, mentre ogni incremento di Pil nominale si tradurrebbe in una variazione del rapporto debito/Pil.
Vi risparmio i conti, ma per rispettare la regola della contrazione del debito in ragione di 1/20 ogni anno per 20 anni con un debito al 127% del Pil ed il pareggio di bilancio sarebbe sufficiente che il Pil nominale crescesse del 2,75%; con un debito al 100% del Pil basterebbe una crescita nominale del 2%; con un debito all’80% risulterebbe sufficiente l’1,25%.
In tempi appena normali questi valori di crescita del PIL sono valori medio-bassi, e basterebbe in realtà un po’ di inflazione per fare in modo di garantire questa crescita (si badi bene: più apparente che oggettiva, in quanto non basata su un incremento della produzione ma sul semplice depauperamento del valore del denaro).
Tanto per dare un’idea, nel 2000-2007, anni di crescita reale molto bassa, la crescita nominale del Pil in Italia è stata in media del 3,6% l’anno, per cui in effetti una condizione inflattiva relativamente bassa permette di mantenere i bilanci relativamente sotto controllo: anche per questo motivo tutti i governi temono la fase di deflazione perché in mancanza di perdita di valore del denaro il debito relativo cresce anziché diminuire.
Questo è esattamente ciò che accade quando c’è una fase di recessione: il Pil nominale può anche diminuire (in Italia è accaduto solo nel 2009) o crescere molto poco (dell’1,7% nel 2011 e, secondo le previsioni ufficiali di aprile 2012, dello 0,5% nel 2012 e auspicabilmente tra il 2,4 e il 3,2% nei tre anni successivi, ammesso che le stime dei governi Italiani non vadano considerate alla stregua di carta straccia).
Ovviamente la deflazione va considerata per quello che è, un adeguamento del mercato a condizioni esterne che ne perturbano le dinamiche: prosaicamente si tratta di valutare quale sia il punto di equilibrio fra prezzi ed offerta che permetta a chi vende di mantenere una marginalità sufficiente a rendere appetibile l’attività svolta.
Nell’istante in cui un qualunque attore finanziario (per esempio il pollivendolo sotto casa) si accorge che tenendo i prezzi troppo alti il suo negozio rimane vuoto, dovrà o rendere più appetibili i suoi polli oppure abbassare i prezzi, tenuto conto del fatto che sotto un determinato prezzo non vale la pena di continuare a tenere aperto il negozio a causa della tassazione e delle spese fisse.
Come ogni sistema, anche quelli economici sono generalmente autostabili (per fortuna): un effetto di deflazione permette in realtà ai salari di incrementare il loro potere di acquisto limitando a sua volta il valore della deflazione, e viceversa, mentre per chi governa ed ha tutto l’interesse ad aumentare l’inflazione per diminuire il valore complessivo del debito questa viene percepita come un disastro.
Basta fare un raffronto con gli altri Paesi europei per rendersi conto che il debito pubblico è il fulcro su cui si deve far leva: nel periodo 2007-2013, la Francia ha accumulato 699,8 miliardi di nuovo debito, la Germania 588,1 miliardi e l’Italia 435,4 miliardi. Nel complesso, la Francia è arrivata ad uno stock di debito pari a 1911,4 miliardi, la Germania a 2176,4 miliardi e l’Italia a 2.040,5.
Questi sono i dati che risultano dalle ultime previsioni del World Economic Outlook del Fmi. Il punto decisivo, per comprendere l’importanza dell’abbattimento del debito pubblico italiano, è rappresentato dalla spesa degli interessi sul debito pubblico: sempre nel periodo 2007-2013, la Francia ha pagato 331,8 miliardi di euro, mentre la Germania ha messo mano al portafogli dei propri cittadini per l’importo di 391,3 miliardi, il costo per i contribuenti italiani è stato assai più elevato: 522,6 miliardi di euro.
Visto che il nostro pil nominale nel 2013 è stato di 1557 miliardi ed il debito di circa 2040 miliardi, è come se in sette anni avessimo pagato per interessi una somma pari ad un terzo del pil e ad un quarto dell’intero debito… Furbo, vero ?
Come detto prima, se la logica di abbattimento del debito è quella basata sulla creazione di un avanzo primario annuale realizzato attraverso l’aumento delle entrate fiscali e la riduzione delle spese pubbliche in un contesto di recessione e di elevati tassi di interesse: dal 2007 al 2013, la Francia ha accumulato un risparmio primario negativo di 338 miliardi euro, mentre la Germania ha realizzato un saldo positivo di 194 miliardi. L’Italia ha registrato un saldo positivo di 161 miliardi di euro.
Ciononostante, il debito italiano è cresciuto in valori assoluti ed in rapporto al pil, che è diminuito. Solo Germania ed Italia, tra l’altro, in tutta Europa, hanno avuto saldi positivi, ma l’Italia è stata penalizzata dall’enorme debito pubblico di partenza: è la zavorra che ci manda a fondo appena un onda increspa il mare dei mercati.
Gran parte dei sacrifici dei contribuenti italiani sono serviti innanzitutto a remunerare il debito pubblico, che alla fine del terzo trimestre del 2013 era detenuto dall’estero solo per 746 miliardi, una somma pari al 36,6% dei titoli in circolazione, e spannometricamente, degli 80 miliardi di euro spesi nel 2013 per interessi sul debito pubblico, circa 29 miliardi sono andati agli investitori esteri mentre 51 miliardi a quelli italiani…
L’incapacità dei precedenti governi (e temo anche dell’attuale) si evidenzia proprio in queste logiche: mancando di qualsiasi vera politiche di sviluppo, è facile capire che qualunque dilettante allo sbaraglio (descrizione perfetta dei politicanti 'de noantri) pensi di portare sviluppo nel paese spendendo del denaro (in genere ad uso e consumo suo, della sua poltrona e della corte dei miracoli che lo attornia) in maniera tale da poter dichiarare di “favorire i consumi” senza rendersi conto di quanto queste logiche poi determinino un appesantimento dei conti pubblici.
Appare chiaro a questo punto che il rispetto della regola del pareggio di bilancio appare decisamente più critica ma anche più importante del cosiddetto fiscal compact, in quanto un effetto di aumento del PIL (e con una disponibilità economica derivante da una maggiore occupazione nel settore privato il PIL salirebbe infallibilmente) assicurerebbe un automatico decremento percentuale del fatidico rapporto debito/PIL.
In una condizione dove il PIL reale risulta essere sceso del 13% dal 2008 e del 9% dal 2009 (al lordo degli effetti inflattivi, per cui dovremmo aggiungere un 4-6% circa), un ritorno entro quattro anni riportando il livello di marginalità delle aziende al valore pre-2009 potrebbe suonare ragionevole, ovviamente al netto delle attività spostate all’estero, attirate da un livello fiscale e burocratico più vantaggioso.
Nel caso Italiano la regola della riduzione del debito si tradurrebbe (partendo dalle stime ufficiali al 2015 contenute nel "Documento di economia e finanza" di aprile 2012) in una discesa del rapporto debito/Pil a un ritmo decrescente: da una riduzione di 3,3 punti nel 2014 a 2,5 punti nel 2018 a 1,3 punti nel 2030: in altri termini, diversamente da quello che a volte si dice, la regola non richiede una riduzione del debito di 3 punti l’anno (un ventesimo della differenza tra 120 e 60) per vent’anni.
Man a mano che il debito/Pil scende, la differenza tra il suo valore e la soglia del 60% si riduce e, quindi, si riduce anche 1/20 di quella differenza: naturalmente ciò allunga il periodo necessario per avvicinarsi al fatidico 60%. Partendo dal livello attuale, la regola comporterebbe per l’Italia nel 2034 un rapporto ancora all’80%.
Quale saldo di bilancio sarà necessario in futuro per ottenere questi risultati? Naturalmente dipenderà dal tasso di crescita del Pil e dal tasso di interesse sul debito, per questo risulta così importante che i tassi di interesse sui prestiti vengano mantenuti bassi, fattore impossibile in una situazione ove si voglia incrementare il PIL tramite la creazione di debito: in questo caso immediatamente la spinta inflazionistica comporterebbe un rialzo dei tassi di interesse e quindi del costo degli interessi passivi da debito.
L’avanzo primario e il saldo totale (indebitamento netto) necessari per rispettare la regola sul debito, proiettando nel futuro le ipotesi ufficiali per il 2015 sono quelli di una crescita reale del Pil all’1,2%, crescita nominale al 3,2%, costo medio del debito al 5% (quest’ultimo maggiore di 0,8 punti rispetto al livello del 2011).
Sono ipotesi che non appaiono particolarmente ottimistiche in un’ottica di lungo periodo: sotto queste ipotesi, l’avanzo primario dal 5,7% previsto per il 2015 potrebbe scendere al 4,8% l’anno successivo, al 4% nel 2021 e così via. Ciò non richiederebbe il pareggio di bilancio, bensì sarebbe coerente con un disavanzo totale tra lo 0,8 e l’1,4% del Pil lungo il periodo considerato.
Il quadro ovviamente cambia se si adottano ipotesi più o meno favorevoli rispetto a quelle ufficiali: ipotesi più pessimistiche, con tassi di crescita nominali intorno al 2%, comporterebbero la necessità di avanzi primari più elevati e quindi richiederebbero, in questo caso sì, un pareggio e anzi un avanzo complessivo ben oltre il 2020.
Con ipotesi più favorevoli, quale sarebbe una crescita nominale del Pil in linea con quella registrata in media nel periodo 2000-2007 (un periodo certo non particolarmente felice per la nostra economia), il disavanzo complessivo potrebbe mantenersi su livelli vicini al 2% lungo tutto il periodo.
Insomma ipotesi anche di poco più ottimistiche sulla crescita del Pil e sul mantenimento dell’attuale livello dei tassi di interesse renderebbero il mantenimento del pareggio di bilancio una regola tutto sommato meno gravosa e renderebbero possibile finanziare le spese di investimento mantenendo gli obiettivi di riduzione del debito.
Ve lo vedete il buon Renzie fare questi ragionamenti? No, vero? E in effetti dichiarazioni del tipo “il ministro delle finanze deve essere un politico, non un tecnico” dichiarano già un indirizzo chiaro…”
(di Axel)
...renzie fare questi "raggionamendi"??? Renzi chi? quello che prima che noi approfondissimo la questione, scriveva sul suo curriculum dettato a Wikipedia di aver "fondato" a 19 anni un'azienda che con tre milioni di fatturato aveva tre sedi, quindici dipendenti e circa 2000 collaboratori esterni? Oppure quello che ancora l'altro giorno confondeva 10 miliardi con 10 punti di IRAP? O magari ti riferisci a quello che ha scritto un "libro dei sogni" che prevede risorse per 130 miliardi all'anno? O Forse a "trecartaro" che pensava di coprire il libro dei sogni coi fondi strutturali europei non spesi? No, no... forse ti riferivi a quello che pensava di farsi dare altri fondi strutturali non già per affrontare spese strutturali, ma per dare la marchetta di 78 euri all'anno a chi guadagna meno dei 15.000 euro all'anno...? Vedi, Axel, per essere certo che renzie possa capire questi discorsi, avresti dovuto fare uno di quei libretti divulgativi a fumetti, che usavano nelle vecchie classi differenziali.
Mi viene in mente anche Gianni Clerici (unico giornalista di tennis italiano conosciuto in tutto il mondo). Quando parlava delle tenniste russe capaci solo di "scoppiare la palla" a randellate, che ogni tanto tentavano qualche "finezza" come un drop-shot, o un lob, mandando la palla in tribuna, Gianni Clerici - che allora commentada con Rino Tommasi le partite su Sky, usava dire: "La pastora siberiana, chiamata a giocare di fino, dimostrò tutta l'umiltà delle sue origini". Ecco, renzie, chiamato a muoversi nei meandri della politica, sta dimostrando tutta la sua nullità. In poche settimane, colui che "abbiamo fatto in otto giorni ciò che gli altri non hanno fatto in otto anni", non ha ancora messo la sua firma non dico du qualcosa di pubblicato in G.G., ma neanche sul "Giobatta", né sulla "legge elettorale", e sta rapidamente affondando nelle sabbie mobili che pensava presuntuosamente di poter dominare. Oggi sta completando l'opera di uccidere il PD, senza che la resurrezione di Berlusconi possa portargli alcun beneficio. Pensava di ammazzare la Camusso lisciando il pendo a Landini, e oggi è stato scaricato dall'una e dall'altro. Ieri si è capito perfettamente a quale banda appartenessero i 101 che hanno affossato Prodi. Oggi Rosy Bindi gli ha dato il benservito. Domani al Senato, dove i numeri sono molto stretti, rischia grosso. Anzi, no. Perchè arriverà - in una squallida politica del "do ut des" - il "soccorso nero" di Forca Italia. Complimenti a renzie, e ai renzini da riporto (che da qualche giorno, pur non essendo "bannati" su questo blog, ci stanno assordando col loro rumoroso silenzio.
Tafanus
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