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Fare la “Rivoluzione”: distruggere e costruire il “Commonwealth” nel linguaggio politico del Seicento (parte seconda)

Creato il 10 gennaio 2012 da Ilcasos @ilcasos
Fare la “Rivoluzione”: distruggere e costruire il “Commonwealth” nel linguaggio politico del Seicento (parte seconda)

Sbarco di Guglielmo d'Orange in Inghilterra in una incisione del 1852 di William Miller

I protagonisti

Il ritratto intellettuale che abbiamo cercato di offrirvi nella parte prima di questo contributo spiega solo in parte le origini della guerra civile in Inghilterra. In questa seconda parte, perciò, cercheremo di integrare il quadro prestando attenzione alla «cultura politica» inglese – in altre parole all’immaginario sociale ed al discorso pubblico[1]. Nell’arena politica degli anni ’40 del Seicento vedremo quindi compiersi la genesi della parola «rivoluzione» come costruzione linguistica[2]. Fuori dalla letteratura politica “alta”, quella dai titoli altisonanti, è infatti interessante notare come l’editoria giuridico-politica nel XVII secolo visse una stagione particolarmente intensa, materializzandosi in una copiosa letteratura che spazia dall’analisi delle leggi del Re e del Parlamento, al ricorso ai modelli ideali di governo fino a panflettistiche più emozionali e popolari[3].

Il termine «rivoluzione» è lungi dall’avere una lettura omogenea all’interno di questa letteratura. In procinto di diventare una metafora del cambiamento, il vocabolo continua ad esprimere nella maggior parte dei casi l’idea di restaurazione, di ritorno al passato, come dimostra il costante riferimento alla ancient constitution[4]. Per altri, come nel caso dell’anticromwelliano James Harrington (1611 – 1677), la rivoluzione fa parte del processo di rise and fall di uno stato, o meglio di una forma di governo, riproponendo gli schemi polibiani[5].

I colleghi (o rivali) di Harrington, inoltre, sembrano aver avuto un’intensa passione per il binomio rivoluzione-ribellione dal momento che, per chi lo visse, la politica fu in primo luogo una rivolta nei confronti del potere del sovrano[6]. Una ribellione che, finalmente libera dalle catene morali del Medio Evo, cessava di essere un peccato (dal momento che l’ubbidienza al sovrano identificava l’ubbidienza a Dio) diventando anzi un atto non solo legittimo, ma per alcuni addirittura l’unico mezzo per difendersi dallo strapotere monarchico[7]. Non più, quindi, rivolta come “azione di pancia” di un popolo frustrato ed irrazionale, ma premessa cosciente di riforma, di radicale cambiamento.

Ricorderete come nella prima parte di questo contributo abbiamo citato l’esercito del nuovo modello affibbiandogli l’etichetta di “sperimentazione”. Beh, non possiamo esimerci dal tirare nuovamente in ballo gli uomini di Cromwell ed in special modo i dibattiti di Putney, in seno ai quali si sviluppò un discorso politico che ebbe particolare successo anche all’infuori di esso: quello sul rapporto proprietà-libertà e sull’influenza di questo sulla partecipazione politica. Di questo tema caldo presso l’opinione pubblica è sintomatica la posizione radicale del portavoce dei Diggers, «vero amatore del governo, della pace e della libertà della repubblica», Gerrard Winstaley (1609-1676). Nella proposta politica ad Oliver Cromwell ed al popolo inglese contenuta nel fondamentale «Piano della legge della libertà», articolando il proprio discorso fra riferimenti a passi biblici, analisi emozionali delle leggi di Inghilterra e slanci passionali, Winstaley sostenne il dovere del Lord Protettore di «dare agli oppressi cittadini, che vi assistettero e pagarono il soldo all’esercito, la libertà di usare la terra»[8], così manifestando le radici economiche ed ideologiche di una frangia di sudditi ribelli.

Fare la “Rivoluzione”: distruggere e costruire il “Commonwealth” nel linguaggio politico del Seicento (parte seconda)

Levellers e Diggers

Per chiudere questa rassegna dei protagonisti della Rivoluzione inglese è necessario spendere qualche riga sull’uso del termine «rivoluzione» nella forma plurale[9]. In merito, è importante il caso del futuro ambasciatore del Commonwealth a Madrid, Anthony Ascham (1614-1650), autore nel caldo 1648 di un discorso «Dove è esaminato cosa sia legittimono durante le confusioni e rivoluzioni dei governi» (letteralmente, dal titolo: A Discourse, wherein is examined what is particularly lawfull during the Confusions and Revolutions of Goverment, riedito nel 1649 con l’accattivante titolo di Of the Confusions and Revolutions of Government, trad. it., Sulle Confusioni e Rivoluzioni dei Governi). Il libro di Ascham aveva come obiettivo di persuadere gli inglesi a prestare fiducia al nuovo governo, (succeduto nell’estate alla monarchia Stuart) e proprio per questo nel testo c’è un radicale abbandono del sinonimo «ribellione», che avrebbe rischiato di suscitare nel lettore una reazione negativa al Lord Protettore. La rivoluzione è qui per tanto identificata neutralmente come shift fra un governo e l’altro.

Il successore ideale di Ascham fu il direttore del Mercurius politicus Marchamont Nedham (1620–1678), il cui pensiero politico è debitore di quello di Machiavelli, ai cui Discorsi Nedham fa costante riferimento sia nello stile che nel contenuto. Descriverne la posizione politica, dati i numerosi mutamenti (tanto che si potrebbe dire che fu una penna al servizio del potente di turno), meriterebbe una trattazione particolare, ma basterà accennare al fatto che fu dalle pagine dei suoi editoriali che venne il più forte sostegno all’argomento del Norman Yoke [10], ed all’idea di palingenesi del governo (in altre parole di rinnovamento delle classiche virtù)[11]. Questa riforma delle istituzioni, sostiene Nedham, non altro che parte del ciclo di  «Rise and Revolutions» degli Stati, un’idea che nello sviluppo del suo pensiero politico passò dal significare “crisi” al più neutro transizione[12].

In sintesi, È logico supporre un feedback tra il vocabolario politico e le contingenze storiche, infatti, se da un lato lo sviluppo di una nuova idea di rivoluzione, proteso al futuro ed ad originali soluzioni di governo influenzò le pieghe del dibattito pubblico, dall’altra sicuramente la crisi politica degli anni ’40 condizionò il passaggio dalla concezione ciclica a quella lineare della storia, ed insieme della rivoluzione[13].

Lotta fra bestie bibliche

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Behemoth e il Leviatano, incisione di William Blake

E se Nedham ed Ascham sono stati tra i protagonisti di questo subbuglio intellettuale, sicuramente non possiamo scordarci dei grandi filosofi, che spesero più di una parola sull’argomento “Rivoluzione” e furono fomentati dagli eventi verso teorie politiche innovative e prettamente moderne. Fra questi Thomas Hobbes del quale tratteremo qui brevemente le due opere che intitolò a figure tratte dal bestiario biblico: il Leviathan, il rex, ed il Behemoth, il populus imbizzito[14]. Non si hanno fonti che possano stabilire con chiarezza l’intenzionalità dell’autore nel contrapporre i titoli delle due opere, tuttavia, un parallelo è di facile ricostruzione fra il rex della prima ed il popolus imbizzito della seconda.

Il Leviathan è l’opera più famosa del filosofo. Un testo dove la «rivoluzione», ambiguamente intesa fra senso politico ed astrologico[15], compare solo nell’ultimo paragrafo, dove l’autore auspica un governo in grado di mantenere il ne cives ad armam veniant:

«E sebbene nella rivoluzione degli stati non ci sia posto perché nascano buone leggi [verità], ad ogni modo non posso pensare che questa possa essere condannata da qualcuno a questo tempo, né dal giudizio pubblico né dalla dottrina e tantomeno da chi desideri la continuazione dela pace civile»[16].

Il Behemoth è invece fra le opere meno note di Hobbes. Edito per la prima volta nel 1679 è un libro articolato in quattro dialoghi che tinteggiano

«un panorama d’ogni specie d’ingiustizia e d’ogni specie di follia che il mondo era capace di offrire, e constatare com’esse erano prodotte dalle loro madri, ipocrisia e presunzione, delle quali l’una è doppia iniquità, l’altra doppia follia»[17].

Una ricostruzione degli eventi scritta all’insegna della coppia Ordine/Caos che da un lato riporta fedelmente il pensiero politico del suo autore e, dall’altro, trova facile «rispondenza dell’attualità politica»[18] del secondo XVII secolo. Di fatto, questo stato “anarchico” delle cose era già stato descritto nel 1646 dall’osservatore Thomas Edwards, che con nostalgia verso il mondo dei tomisti aveva così descritto quelli che nel Behemoth saranno i «seduttori del popolo»:

«dichiarati contro monarchi e aristocrazia e per la democrazia, a questo proposito si sono espressi in maniera tale da renderla nient’altro che anarchia, rendendo tutti uguali, confondendo tutti i ranghi e gli ordini, riducendo tutto al tempo e alla condizione di Adamo, e devolvendo ogni potere sullo stato ad un’universale e promiscua moltitudine, la quale, secondo loro, può a suo mero piacimento, creare e distruggere re, parlamenti e tutti i magistrati, senza essere legata a nessuna regola o essere vincolata da nessuna legge»[19].

I dialoghi del Behemoth promossi dalle perplessità dell’interlocutore B. approfondiscono il tema degli «umori» del popolo, da Hobbes percepiti come leva e fulcro della guerra civile, tanto che particolare spazio viene dedicato all’analisi dell’identificazione fra “patriottismo” e “disobbedienza”. Tale motivata ribellione al sovrano, come già visto sopra nell’esempio di Harrington, sarebbe ulteriormente corroborata dall’incapacità per un sovrano dalle casse dissestate di rispondere efficacemente alle crescenti richieste dei propri sudditi. Nella percezione di A., che rappresenta l’autore nella penna, la mancanza di solvenza del Re è infatti l’unica spiegazione plausibile della disobbedienza strisciante in seno ai soldati addestrati di Sua Maestà:

«Il popolo era, per lo più, corrotto, e i disobbedienti erano stimati come i migliori patrioti … ritengo che questi [il re] se avesse avuto denaro, avrebbe potuto disporre, in Inghilterra, di abbastanza soldati. Infatti, … nel popolo comune, … i più si sarebbero schierati da qualsiasi parte in cambio di paga o di bottino»[20].

Un tema, quello della natura fiscale della rivoluzione, non solo radicato nell’ideale collettivo (si pensi al caso di Bacone), ma più volte ventilato nei quattro dialoghi del Behemoth. Ciò sia nello studio dell’azione di governo che in quello di umore sociale e “seduzione” del popolo che, infine, in chiave precettistica[21]. Nessuno di questi tre fenomeni, però, avrebbe potuto avere senso fuori dalla logica individualista instaurata dal sacerdozio universale protestante. La lettura diretta del testo sacro, infatti, aveva fatto venire in odio al popolo «il Libro di preghiera comune, che consta di formule prestabile, premeditate, affinché gli uomini possano vedere a che cosa devono dire amen[22]». Un tema anch’esso non sconosciuto al dibattito coevo, tanto che per accennarvi Hobbes cita le parole di un noto realista, Allestree:

«dobbiamo prestare obbedienza, o attiva o passiva che sia. Dobbiamo obbedienza attiva a tutti gli ordini legittimi … ma quando egli [il magistrato] ingiunge di fare qualcosa che va contro ciò che Dio ha comandato, non dobbiamo, allora, prestargli quest’obbedienza attiva … Stavolta noi dobbiamo obbedire a Dio piuttosto che agli uomini; ma anche un’occasione come questa esige l’obbedienza passiva: dobbiamo pazientemente sopportare il nostro rifiuto, e non sollevarci contro di lui per proteggere noi stessi (corsivo mio)»[23].

Infine, Hobbes sa, ed A. riporta, che la retorica dei protagonisti è infarcita dai richiami a distanti passati avvertiti come vicini, come concrete possibilità politiche; che gli «uomini di più elevata condizione» erano ormai invaghiti «delle forme di governo dei greci e dei romani» e le credevano riproducibili. Ciò avviene, ad esempio, quando trattando del ricorso ideale al mito degli antichi popoli dell’isola, attraverso la voce di B. Hobbes riesce a sostenere che non esiste una

«legge più fondamentale di un’altra, eccettuata solo quella legge di natura che ci vincola tutti ad obbedire a colui – chiunque egli sia – al quale legittimamente e per la nostra stessa sicurezza abbiamo promesso di obbedire  …  l’unica legge fondamentale, infatti, in ogni stato è quella di obbedire costantemente alle leggi fatte da colui al quale il popolo ha dato il potere supremo»[24]

oppure ancora quando nelle parole di A. passa una difesa dell’assolutismo, come appare dalla critica al conte di Essex:

«egli era, così per dire, trascinato dalla corrente dell’intera nazione a pensare che l’Inghilterra fosse una monarchia non assoluta, ma mista, non avendo considerato il fatto che il potere deve sempre essere assoluto, sia che risieda nel re, sia che risieda nel parlamento»[25].

Per concludere, leggendo il Behemoth tenendo ferme sia le premesse culturali ed il dibattito filosofico politico coevo, che la precedente produzione hobbesiana (in particolar modo il Leviathan) è facile intendere come “il popolo imbizzito” costituisca l’applicazione di uno specifico «schema interpretativo [quello di Hobbes] ad un caso concreto, alla rivoluzione inglese»[26]. Schema che gli permette di giungere ad un giudizio complessivo:

«Sono stolti, in generale, tutti quelli che demoliscono qualcosa che è loro di giovamento, prima d’aver messo al suo posto qualcosa di meglio. Chi vuol istituire la democrazia servendosi d’un esercito, deve avere un esercito per mantenerla; ma questi uomini la istituirono quando l’esercito l’avevano coloro che eran decisi ad abbatterla. A queste prove potrei aggiungere la follia di quegli uomini, davvero sagaci a forza di leggere Cicerone, Seneca, o altri scrittori contrari alla monarchia, che si persuadono d’essere abili politici, o si mostrano scontenti quando non sono invitati a partecipare al governo dello stato, e passano da una parte all’altra ogni qualvolta immaginano d’esser trascurati dal re o dai suoi nemici»[27].

Lungo passo con il quale sembra opportuno riassumere l’analisi del racconto della Rivoluzione inglese firmato da Thomas Hobbes.

Quella fra il Leviathan ed il Behemoth fu una lotta? Non è dato sapere con chiarezza l’intenzionalità dell’autore ma è certo che, se da una lato il Leviatano venne ripulito da Hobbes di ogni parvenza demoniaca per diventare il benefico ed amato sovrano, unico in grado di garantire la salvezza e la pace del proprio paese; dall’altro la bestia delle bestie, il Behemoth, perseverò nella connotazione negativa, diventando ribelle forza distruttrice (ma in fondo in fondo innovatrice e quindi rivoluzionaria). Ma è anche indubbio che Hobbes non avversasse a priori la ribellione, anzi: dal momento che il potere absolutus del sovrano esiste in virtù del patto, quando questi rompe il contratto il popolo[28], che a sua volta esiste solo in quanto riunito sotto la sua egida, tale popolo riunificato può e deve cercare un nuovo potere sovrano sotto cui identificarsi per sfuggire allo stato di natura.

Conclusioni

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Nelle pagine precedenti si è cercato di studiare

«la politica attraverso il linguaggio sociale, quello delle parole ma anche quello delle azioni collettive, uno strumento capace di raccogliere e convogliare forti spinte emozionali»[29].

e così descrivere il panorama intellettuale ed il dibattito politico imperanti durante il Seicento inglese. Ciò nella ferma convinzione che tutti i contributi al discorso culturale e sociale, alti o bassi che fossero, concorsero ad una specifica denotazione dello specimen “rivoluzione”; diversa quanto da quella primo rinascimentale di “rivolgimento” quanto dalla successiva accezione “forte” inaugurata nel 1789.

Attraverso il tratteggio del mosaico spirituale dell’epoca è emerso un mondo che, spogliandosi dei panni dell’ordine sociale medioevale, si trasformava in una società più dinamica che necessitava di un apparato ideologico (e quindi religioso) imperniato sull’uomo e la sua azione nel mondo: questo grande cambiamento nel regime sociale, rese la politica mutabile[30].

A questo nuovo ordine delle idee appartiene la rappresentazione simbolica della rivoluzione, presa in prestito dal movimento degli astri e viepiù riportata alla tipologia del cambiamento politico

«Dal momento che la Gloria di uno Stato dipende dalla rovina di un altro, vi è rivoluzione e vicissitudine nella loro grandezza»[31].

Fu in particolar modo l’impianto religioso, costruito sulla chiusura ecclesiologica delle nuove chiese riformate, a produrre il prototipo rivoluzionario dei “Santi”, ovvero di figure controverse il cui obbiettivo primario era la dissoluzione dell’ordine stabilito; protagonisti di una storia politica fatta di rigorosa ascesi intra-mondana ed instancabile perseguimento di un ideale politico ed insieme religioso [32]. Per altro verso, tuttavia, il discorso ecclesiologico non può essere l’unica spiegazione agli eventi del Seicento inglese. Per questo, è stato necessario sottolineare che già durante il Cinquecento la politica britannica aveva fatto del discorso religioso un valido sostrato al dibattito più squisitamente politico e giuridico e che era piuttosto quest’ultimo a servirsi degli argomenti del primo, quanto invece la lotta religiosa a trovare sbocchi nella sfera politica, un panorama più continentale che inglese.

Il secolo del libero esame fu un cantiere di idee e modelli politici, di riflessione originale sulle istituzioni ed i loro fondamenti logici. In questo senso, la presa di posizione contro il re, le richieste coscienti dei suoi sudditi, e la successiva esecuzione (non assassinio!) del sovrano sono sintomatiche. È negli anni ’40 del Seicento in Inghilterra che l’uomo moderno arriva per la prima volta a credersi capace di (ri)scrivere la costituzione di uno Stato, cosa che il Medio Evo con i propri stati immutabili non avrebbe mai ritenuto possibile: l’isola britannica, in conclusione, rese tutto ciò realtà.

Come messo in luce dalla letteratura, la rivoluzione inglese non può avere una spiegazione monocausale, dal momento che concorsero agli eventi fattori socio-economici, culturali, religiosi e giuridici[33]. Allo stesso modo, l’utilizzo della categoria del rivoluzionario per descrivere sé stessi non fu netto ed unilaterale presso gli attivisti politici del Seicento.

Fare la “Rivoluzione”: distruggere e costruire il “Commonwealth” nel linguaggio politico del Seicento (parte seconda)

Guglielmo III d'Orange con la moglie Maria II Stuart

Il termine venne utilizzato per la prima volta in senso condiviso per indicare la glorious revolution del 1688 e nel farlo gli inglesi vollero pulirlo dai caratteri della violenza e della guerra civile, cosa che non sembra possibile fare con i 40 anni di rivoluzione che precedettero l’instaurazione della monarchia mista: la rivoluzione di Guglielmo III d’Orange e Maria II Stuart fu essenzialmente una «rivoluzione politica con conseguenze sociali[34]» e non viceversa. Con il biennio 1688-89 l’Europa sancisce l’idea di Rivoluzione come «ritorno ad uno stato precedente di cose»; come risanamento di un ordine turbato. Quanti auspicavano il ritorno del “King in Parliament”, ebbero nel 1689 finalmente soddisfazione. In questa sede, però, si è cercato di guardare all’ambiente culturale inglese ed al dibattito politico, precedente lo spartiacque del 1688, ovvero alla fase della «rivoluzione puritana»[35]: implicare nel discorso la sua risoluzione ideale e pratica, la “gloriosa rivoluzione”, avrebbe infatti rischiato di viziare l’impressione generale dei suoi presupposti storici[36].

Si è detto fin dal principio che il compito non sarebbe stato quello di individuare nella retorica del passato un riferimento alla percezione attuale del termine rivoluzione. Dalla trattazione del tema è emerso che presso l’opinione pubblica del Seicento questa rappresentazione simbolica non serviva a richiamare i concetti della straordinarietà e dell’innovazione, ma anzi rimandava a quelli della fatalità e della palingenesi. Soprattutto però, è risultato evidente come il vocabolo venisse usato, sebbene in versioni che oggi diremmo improprie, in chiave soprattutto metaforica. Infine, dunque, prima di sapere cosa stessero mettendo in atto, gli inglesi stavano già facendo una Rivoluzione[37].

[Bibliografia]

 

Se vuoi leggere di più su come è stato scritto questo articolo, butta un occhio qui.

Note   (↵ returns to text)
  1. Una simile spiegazione sposterà l’accento dalla lotta per gli interessi politici, al confronto fra «discorsi e rappresentazioni simboliche»; basandosi sull’idea dell’intima connessione fra le pratiche sociali ed i codici linguistici. Questo spostamento sul semiotic circle, avvenuto nel corso degli anni ’80 del secolo scorso e finalmente emerso alla fine di quegli anni nell’ambito di un simposium a Chicago ha trovato una applicazione feconda nel caso degli studi sulla Rivoluzione francese (leggi problema dell’ilusion de la politique) materializzandosi in un generoso corpus di saggi. Vedi F. BENIGNO, Revisionismi a confronto, op. cit., pp. 48-49.↵
  2. Cfr. Ibidem, p. 57 ed I. RACHUM, The meaning of Revolution in the English Revolution, op. cit., p. 195 e sgg.↵
  3. Per l’interesse alla «logomachia» ed alla produzione «quotidiana» di conflitti simbolici e linguistici Cfr. F. BENIGNO, Revisionismi a confronto, op. cit., pp. 54-55.↵
  4. I. RACHUM, The meaning of Revolution in the English Revolution, op. cit., p. 196.↵
  5. L’anaciclosi polibiana proponeva una concezione deterministica dello stato. Ogni forma di governo (Monarchia, Aristocrazia, Democrazia), infatti, sarebbe immancabilmente precipitata nella propria degenerazione (Tirannia, Oligarchia, Anarchia) secondo un andamento ciclico. Questa processo in fasi era in oltre prevedibile dal filosofo politico.↵
  6. Come sottolineato da più autori, la rivolta chiamata con il nome di rivoluzione era anche l’antecedente diretto cui gli inglesi potevano guardare ed ispirarsi. Gli inglesi, che già avevano guardato con favore alla rivolta dei Paesi Bassi contro Filippo II, dovettero sicuramente partecipare con interesse alle notizie che giungevano dal mediterraneo sulle molte “rivoluzioni” contro l’impero spagnolo, in Catalogna e Portogallo (1640), Sicilia e Napoli (1647) ed essere pertanto influenzati da questo impiego del termine. Per un approfondimento del tema vedi I. RACHUM, The meaning of Revolution in the English Revolution, op. cit.↵
  7. Con ciò non si deve pensare che la morale allora vigente fosse “lassista”, anzi, la morale puritana poneva l’accento più sui doveri che sui diritti, tanto che fino agli anni ’40 del Secolo si era anzi dimostra piuttosto “lealista”-la resistenza entrò pertanto a pieno titolo nel discorso del suo contraltare ideologico, la dottrina cattolica, presso la cui letteratura (come si è avuto modo di dire in precedenza) il discorso sulla legittimità ad ubbidire non si era mai assopita. A scardinare la rigidità dell’ordine precedente era piuttosto la nuova accezione di dovere condizionale, che poneva anche la disobbedienza a metà strada fra l’obbligo morale ed il diritto, e gli inglesi fra l’essere dei sovversivi e resistere.↵
  8. G. WINSTALEY, Piano della legge della libertà [1652] in V. GABRIELI (ed), Puritanesimo e libertà, dibattiti e libelli, Torino 1956, pp. 293-410.↵
  9. L’uso al plurale connota uno stadio in cui il tipo «rivoluzione» non ha ancora assunto quei caratteri di originalità, di rottura totale e violenta con il passato che verrà ad acquisire un secolo e mezzo più tardi con la Rivoluzione francese. Le versioni fin qui riportate hanno tutte in comune un’accezione generica del termine, tanto che, suggerendo qui uno spunto che verrà solo accennato nel corso di queste pagine, anche la rivoluzione del 1688-’89 -la prima ad essere chiamata coralmente con questo nome- viene caratterizzata dall’aggettivo, gloriosa (perché senza spargimenti di sangue), e non per il solo essere rivoluzione. Fra i protagonisti che sfruttarono la rivoluzione nel suo significato plurale, è necessario citare anche l’illustre esempio della retorica di Oliver Cromwell, che nel 1654, legittimando il proprio status di Lord Protettore, parlerà di revolutions nel senso già usato da Sancroft, arcivescovo di Canterbury (V. nota 49), ovvero nell’ottica del disegno divino: Vedi I. RACHUM, The meaning of Revolution in the English Revolution, op. cit., p. 206; C. HILL, The Word ‘Revolution’, op. cit., p. 92 che sottolinea la modernità dell’uso di Cromwell, sebbene questi perseveri nell’uso della forma plurale, più classica.↵
  10. La tesi del giogo normanno, particolarmente fortunata nel discorso politico della metà del secolo, dava accento alle libertà fondamentali dell’antico popolo britannico, sul quale i normanni avrebbero imposto un ideale “giogo” legale aprendo la strada del feudalesimo, avvertito come primo mobile dei mali del Regno. Con l’implicito legame ai temi della proprietà della terra-e di qui alla partecipazione alla vita politica-il giogo normanno divenne un riferimento “obbligato” sia per i Diggers che per i Levellers e risuona dagli scritti di molti importanti protagonisti dell’epoca.↵
  11. M. BARDUCCI, Machiavelli nella cultura politica inglese (1648-1652). Marchamont Nedham e Anthony Ascham, in A. ARIENZO, G. BORRELLI (edd), Angloamerican faces of Machiavelli, Machiavelli e machiavellismi nella cultura anglo-americana (secoli XVI-XX), Monza 2009 pp. 189-199.↵
  12.  Vedi I. RACHUM, The meaning of Revolution in the English Revolution, op. cit., pp . 202-204, 209; C. HILL, The Word ‘Revolution’, op. cit., p. 90.↵
  13. Vedi C. HILL, The Word ‘Revolution’, op. cit., p. 88.↵
  14. Entrambe le figure provengono dal libro di Giobbe. Nel passaggio, il retto Giobbe si dispera e ribella contro Dio per le pene che questi gli ha inflitto nelle proprietà, negli affetti e nella salute. Alla rabbia ed allo sgomento di Giobbe per l’ingiusta sofferenza, il Signore risponde mostrandogli le «fondamenta del mondo» da Lui creato alla cui vista Giobbe, contrito, si sottomette a Dio che ristabilisce le sue pene. Il Leviathan ed il Behemoth, mostrati in ultimo dal Signore, vengono così a significare la potenza del Signore e sono resi nelle immagini di mostri l’uno marino, l’altro terreno. Hobbes non recepì insieme al nome l’icona delle due bestie, che nelle due opere sono metafore politiche. Il Leviatano, nel famoso frontespizio, è rappresentato da una figura umana gigante che domina un paesaggio formato da campi e borghi e tiene in una mano la sfera del potere spirituale e nell’altra la spada. Sotto la testa-coronata-il corpo sembra avvolto in una cotta, ma a ben guardare questo è in realtà formato da una miriade di figure umane rivolte verso il capo; i sudditi che diventano popolo nel momento in cui costituiscono un potere sovrano che li rappresenta e tutela. L’immagine è per tanto un’allegoria dello Stato e del contratto. Il Behemoth, plurale di behemah l’ebraico “bestia”, è nella versione hobbesiana il demos, il popolo riunito nel Parlamento che tanto Hobbes criticherà nelle voci di A. e di B. nel corso dei quattro dialoghi che compongono l’omonima opera. i.e. nelle Historia ecclesiasticae pubblicata postuma; Cfr. O. NICASTRO, Introduzione, op. cit., p. XXIII e nn. 61-62. Vedi i.e. nelle Historia ecclesiasticae pubblicata postuma; Cfr. O. NICASTRO, Introduzione, op. cit., p. XXIII e nn. 61-62.↵
  15. I. RACHUM, The meaning of Revolution in the English Revolution, op. cit., p. 210.↵
  16. «And though in the revolution of states there can be no very good constellation for truths of this nature to be born under (as having an angry aspect from the dissolvers of an old government, and seeing but the backs of them that erect a new); yet I cannot think it will be condemned at this time, either by the public judge or doctrine, or by any that desires the continuance of public peace» T. HOBBES, Leviathan, printed for Andrew Crooke at the Green Dragon in St. Paul’s Churchyard, London 1651 [ed. 1976, p. 493].↵
  17. Come è intuibile già da queste due brevi citazioni, Behemoth, pp. 5, 155, il Behemoth non si tratta di una cronistoria, ma di una narrazione appunto. In altre parole di valutazioni politiche alla luce degli eventi, che costituiscono l’ossatura dei dialoghi ma non ne sono il cardine. Hobbes non manca, peraltro, di profondersi in dettagliate ricostruzioni storiche, come quelle delle battaglie nei dialoghi III e IV, oppure in efficaci sinossi, quali quella in sette svolte, o passaggi di potere per la quale vedi T. HOBBES, Behemoth, op. cit.  p. 226.↵
  18. O. NICASTRO Introduzione, op. cit., p. XIV. A questa conformità di indirizzo dovette certo pensare il primo editore del Behemoth, che optò per una pubblicazione frettolosa  e quasi abusiva dei quattro dialoghi sulla guerra civile, in modo da vibrare le corde sensibili di un’opinione pubblica attenta alle possibile derive assolutistiche (e papiste) della Restaurazione, si legge infatti nella nota del Libraio: «Devo confessare che, in base a certe considerazioni, il Signor Hobbes era contrario a pubblicare l’opera; ma, dal momento che è impossibile farla sparire, non essendoci un libro che più comunemente si trovi in vendita presso tutti i librai, spero di non dover temere di recar dispiacere a nessuno, se rendo giustizia al mondo e a quest’opera, che ora io pubblico sulla base del manoscritto originale…». Si tratta di Edward Crooke, Editore-Libraio di Hobbes (Cfr. in Ibidem). Per una più semplice comprensione di Crooke e del suo rapporto con l’opera esaminata è utile precisare i contorni di questa figura professionale. Nella prima età moderna gli Editori – Librai, in Inghilterra definiti stationers, svolgevano contestualmente i ruoli di stampatore, editore e libraio. Dai cataloghi  annuali delle opere è stato evidenziato come nella bottega di un libraio-stampatore erano presenti sia i testi stampati presso le proprie tipografie, sia pubblicazione di case partner. Vedi M. CARICCHIO Religione, politica e commercio di libri nella rivoluzione inglese: gli autori di Giles Calvert 1645-1653, Genova 2003.↵
  19. Citato in O. NICASTRO, Introduzione, op. cit., p. 44.↵
  20. O. NICASTRO, Introduzione, op. cit., p. 44.↵
  21. Ciò avviene ad esempio nel Dialogo terzo, nel citare il ruolo delle grandi capitali, centri nevralgici dell’attività commerciale e quindi poli della finanza statale: «queste grandi capitali, quando la ribellione avviene col pretesto dei gravami (grievances), devono per forza essere dalla parte dei ribelli, poiché tali gravami non sono altro che tasse; e dalle tasse gli abitanti delle capitali, cioè mercanti che hanno il guadagno privato come vocazione (profession), sono per natura nemici mortali, dato che la loro unica gloria è quella di diventare eccezionalmente ricchi per la loro sapienza nel comprare e nel vendere». T. HOBBES, Behemoth, op. cit., p. 147.↵
  22. T. HOBBES, Behemoth, op. cit., p. 31.↵
  23. R. ALLESTREE, The whole duty of man, laid down in a plain and familiar way for the use of all, but especially the meanest reader. Divided into XVII chapters. One whereof being read every Lord’s Day, the whole may be read over thrice in the year. Necessary for all families. With private devotions for several occasions, London 1659, citato in T. HOBBES, Behemoth, op. cit., p. 58.↵
  24. T. HOBBES, Behemoth, op. cit., pp. 79, 183.↵
  25. T. HOBBES, Behemoth, op. cit., p. 131.↵
  26. I.e. O. NICASTRO, Introduzione, op. cit., p. XXV, XXXI e citazione a p. XXXVI.↵
  27. T. HOBBES, Behemoth, op. cit., p. 180.↵
  28. Durante il processo che nel 1649 vide Carlo I al banco degli imputati, il sovrano si rifiutò più volte di riconoscere l’autorevolezza della corte, il Parlamento e pertanto del suo popolo.↵
  29. F. BENIGNO, Revisionismi a confronto, op. cit., p. 47.↵
  30. Questa discontinuità fra gli assetti sociali medievale e moderno, e la mutazione nell’idea di “ordine” sono riportati da Michael Walzer all’insorgenza della nuova disciplina morale della confessione calvinista. Cfr. M. WALZER, The Revolution of the Saints, op. cit.↵
  31. «Because the glory of one State depends on the ruine of another, there is a revolution and vicissitude in their greatness» La citazione, trovata in I. RACHUM, The meaning of revolution in the English Revolution, op. cit., p. 197, è dello scrittore Thomas Browne e risale alla metà degli anni ’20 del secolo.↵
  32. Oltre al più volte citato M. WALZER, The Revolutions of the Saints, op. cit., p. 3 il tema è presente anche nel saggio che Burgess dedica alla morale inglese, per lo storico avvertita come una ragione principe e primo motu delle vicende degli anni ’40 e per tanto da non “over-secularize”, che così si conclude: «it is arguable that this sermon culture (more than any political thought) was the basis of the later development in Diggers and Quakers, and others, of what is sometimes called “religious radicalism» i.e. G. BURGESS, Religious war and Constitutional Defence, op. cit., p. 206.↵
  33. Cfr. F. BENIGNO, Revisionismi a confronto, op. cit., p. 21.↵
  34. F. BENIGNO, Revisionismi a confronto, op. cit., p. 21.↵
  35. La coniazione della formula rivoluzione puritana come contraltare alla glorious revolution si deve alla definizione tardo-ottocentesca di Samuel Rawson Gardiner, che pose l’accento sugli elementi ideologici e religiosi degli attori politici del ventennio 1640-60. Vedi I. RACHUM, The Meaning of Revolution in the English Revolution, op. cit.↵
  36. L’idea è stata dunque quella di descrivere lo «shift in the meaning of revolution well before 1688», C. HILL, The Word ‘Revolution’, op. cit., p. 101, senza lasciarsi influenzare dal terminus post quem di questo processo filologico. Cfr. la «polemica antiteleologica» di Russell e la «amalgama prerivoluzionaria» di Baker citate nel saggio storiografico al quale più volte si è fatto riferimento nel testo: F. BENIGNO, Revisionismi a confronto, op. cit., p. 51.↵
  37. Vedi C. HILL, The Word ‘Revolution’, op. cit., p. 97.↵
  38. A. ARIENZO, Machiavelli e machiavellismi fra restaurazione Stuart e governo Orange, in A. ARIENZO, G. BORRELLI (edd), Angloamerican faces of Machiavelli, Machiavelli e machiavellismi nella cultura anglo-americana (secoli XVI – XX), Monza 2009, pp. 209-247.

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