Ma che temperamento, che forza, che rigore, che coerenza. Con che saldezza resistono a minacce e blandizie, a ricatti e lusinghe, a intimidazioni e tentazioni. Queste poi sono state le più insidiose, ci fanno sapere. Pare addirittura che per accaparrarsi i consensi dei dissenzienti sia stata loro offerta, ben oltre a candidature sicure e collocazioni prestigiose, nientepopodimeno che di contribuire, alla pari o quasi, alla scelta del nuovo direttore dell’Unità, incarico influentissimo che potrebbe condizionare opinione, pacchetti di voti nelle prossime tenzoni elettorali del partito unico, addirittura lo stato di salute del premierato e della democrazia.
Certo, ancora non si sa come e quando la gloriosa testata fondata da Antonio Gramsci, che oggi dubito sarebbe allineato con Renzi, ma nemmeno con Civati, Cuperlo o Speranza, ultima a morire e primo a dimettersi, preferendo una distaccata indifferenza, tornerà in edicola. C’è voluto l’escamotage del tribunale fallimentare a smuovere le acque, sancendo con un concordato l’accordo siglato tra la nuova proprietà con il poliedrico editore di Stop e Vero in posizione maggioritaria (ne avevamo parlato qui https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2015/03/10/vero-compra-lunita-siamo-al-top-e-allo-stop/) e il cdr, e che prevede la riassunzione dalla vecchia redazione, composta da 56 giornalisti (in cassa integrazione a zero ore per due anni), di 16 giornalisti con rapporto di lavoro dipendente (10 a Roma e 6 a Milano) e 9 giornalisti con rapporto di collaborazione. A chi tocca, tocca. Nello spirito del tempo, tra Jobs Act e manager tetragoni alla contrattazione, la scelta del direttore sarà cruciale: sarà lui, o lei (si parla di Menichini-chi?, collaudato nel ruolo di grande firma di samizdat beneficati da contributi pubblici indirettamente proporzionali al numero dei lettori, e da Maria Teresa Meli, agiografa sgangheratamente fanatica del segretario del Pd) ad avviare i colloqui e fare le scelte, in tempo per l’annunciata presenza in edicola il 25 aprile, ammesso che per qualcuno del partito socio di minoranza la data significhi qualcosa di più di quella fatale del primo maggio, giorno di inaugurazione dell’Expo.
Beh, malgrado tutte queste premesse, malgrado la proposta fosse ghiotta, malgrado le golose ricadute di una partecipazione alla autorevole designazione, la minoranza che non sa essere opposizione ha detto no. E in alcune dichiarazioni, ovviamente protette da ragionevole anonimato, ha rivendicato la solida fermezza del gran rifiuto opposto alla tracotante indole corruttiva della dirigenza del Pd, che alterna carezze e pugni.
Non si sa chi sia peggio. Se un segretario/presidente e padrino precoce di una famiglia di affini assoggettati e innamorati a un tempo di lui e della posizione che la fidelizzazione assicura, se un gruppo dirigente asservito a una cupola padronale, ma come succede a kapò, maggiordomi e anche lacchè, usi a essere forti coi deboli e deboli coi forti, se un ceto affetto da leaderismo come da incompetenza, approssimazione, ambizione smodata quanto la tenacia con la quale vogliono conservare rendite di posizione e privilegi, raggiunti grazie al cono di luce del piccolo cesare, e ormai dedito a zittire ogni voce critica, comprandola o soffocandola. O invece una minoranza dedita al brontolio sommesso, a forbiti distinguo, a pretese di diversità, a eleganti e motivate proteste che si concludono nella doverosa accettazione, per carità di patria. È che la patria per gli uni e per gli altri è l’unico posto rimasto sicuro, e anche l’unico che non richiede fatica, in un paese senza garanzie e senza lavoro. E’ che negli uni e come negli altri non alberga nemmeno il sospetto, nemmeno il dubbio che possa esistere qualcosa d’altro rispetto alla miseria di pensiero e idee nella quale ci hanno costretto a vivere. Non vogliono neppure misurarsi con l’opportunità, difficile, di assumersi la responsabilità di immaginare altri modelli di vita e altre forme della politica. I pochi discordanti, condannati da sé a non stonare l’inno del regime, fanno finta con loro stessi e con noi che sia l’unica strada, come se la storia non avesse smentito la chance dell’entrismo, come se occasionali riforme non avessero dimostrato l’impossibilità di temperare la ferina potenza del capitalismo, come se il consociativismo non avesse sempre finito per assecondare i rapaci appetiti dello sfruttamento.
E c’è da sospettare che in mancanza della possibilità di perpetuare il disturbo tollerato della mansueta e segreta carica dei 101, preferiscano il riproporsi del voto di fiducia, quello che libera tutti, cui si è costretti a uniformarsi, che tanto l’unica a scandalizzarsi è la Costituzione, quell’avanzo arcaico da stracciare insieme alla democrazia. Perché, purtroppo, quella minoranza è il ritratto degli italiani, che non si scandalizzano più, nemmeno davanti allo specchio.