Esempio di fascio spaziale in un’illustrazione artistica di un buco nero supermassiccio. Crediti: ESA/NASA/AVO
Le loro fotografie ci affascinano ormai da anni: vere e proprie pennellate di luce nello spazio, che schizzano fuori da giovani stelle, vecchie nebulose o buchi neri supermassicci al centro di grandi galassie.
Si tratta di getti di materia ad alta velocità, il cui aspetto è ormai noto agli astronomi (Hubble ci ha regalato le immagini forse più mozzafiato) ma la cui natura è decisamente meno conosciuta.
Non mancano i modelli teorici che tentano di spiegare l’origine di questi pittoreschi oggetti celesti, ma ora per la prima volta è stata proposta un’ipotesi basata su dati sperimentali. Com’è possibile? I fasci di materia spaziale sono molto difficili da analizzare nel dettaglio con gli attuali strumenti di osservazione. Per questo un gruppo di ricercatori francesi e americani ha provato ad aggirare l’ostacolo in modo drastico: scegliendo di spostare gli esperimenti dallo spazio a un luogo un po’ più comodo, il nostro pianeta.
L’obiettivo era ricreare in laboratorio i fantomatici getti spaziali, e in particolare le condizioni che li portano a collidere invece che a divergere: in altre parole, a diventare quei fiotti di luce immortalati dalle telecamere dei nostri telescopi.
Per farlo, gli scienziati hanno utilizzato i potentissimi laser di LULI, tecnologico laboratorio dell’Ecole Polytechnique di Palaiseau, vicino a Parigi. Collaboratori dell’Università di Chicago si sono invece occupati di sviluppare un sofisticato codice in FLASH per analizzare i risultati.
“Ci siamo concentrati su un fascio laser molto energetico puntato su un piccolo bersaglio, più sottile di un capello umano” spiega Alessandra Ravasio, responsabile dell’esperimento. “In questo modo abbiamo creato un flusso di plasma supersonico”.
Ecco dunque il punto di contatto tra terra e cielo: il plasma, che ha permesso di riprodurre sul nostro pianeta un fenomeno prima osservato solo in particolari condizioni spaziali. Considerato il quarto stadio della materia, il plasma è un gas ionizzato costituito da un insieme di elettroni e ioni e globalmente neutro. Quello generato dall’Ecole Polytechnique era formato da atomi di ferro, che a loro volta si incontravano con un altro getto simile sprigionato da un anello di plastica. E così i ricercatori hanno potuto osservare la convergenza tra i due fasci di materia, proprio come accade nello spazio su scale migliaia di volte più grandi.
“La novità di questo esperimento sta nel modo in cui abbiamo distribuito spazialmente l’energia del laser, con un punto centrale originato dal flusso di ferro e uno più esterno incidente sull’anello di plastica” spiega Ravasio. “In questo modo abbiamo potuto creare una geometria nidificata, e studiare le interazioni tra i due flussi”.
Interazione che dai dati sperimentali sembrava convergere in una direzione precisa piuttosto che propagarsi in più direzioni; questo sembrerebbe confermare una delle teorie fino a oggi elaborate sui getti cosmici, il cosiddetto modello “shock”. Secondo cui esistono alcune superfici nello spazio in cui vi sono improvvisi cambi di densità, velocità e direzione del flusso cosmico: questo porterebbe i getti di materia a convergere verso un’unica “corrente” luminosa.
La stessa cosa osservata nell’esperimento franco-americano: ecco che i dati ottenuti sulla Terra sembrano convergere con quelli raccolti nell’Universo.
Per saperne di più:
- Leggi l’articolo “Experimental Demonstration of an Inertial Collimation Mechanism in Nested Outflows” di R. Yurchak, A. Ravasio, A. Pelka, S. Pikuz, Jr., E. Falize, T. Vinci, M. Koenig, B. Loupias, A. Benuzzi-Mounaix, M. Fatenejad, P. Tzeferacos, D. Q. Lamb, and E. G. Blackman su Physical Review Letters
Fonte: Media INAF | Scritto da Giulia Bonelli