Squadra che vince non si cambia. Né davanti, né dietro la macchina da presa. È questa l’oculata strategia produttiva di Fast & Furious 5. Il quinto capitolo della saga automobilistica più adrenalinica di Hollywood, infatti, è costruito rimpatriando sul set non soltanto i principali attori delle puntate precedenti, ma anche lo stesso regista (Justin Lin), soggettista (Gary Scott Thompson), sceneggiatore (Chris Morgan), montatore (Peter Wenham), direttore della fotografia (Stephen F. Windon), compositore (Brian Tyler), costumista (Sanja Milkovic Hayas) e l’elenco potrebbe proseguire ancora e ancora, arrivando fino ai tecnici, agli stunt man e alle maestranze. Tutti ai loro soliti posti, insomma, tranne forse Brian O’Conner (Paul Walker) che, dopo vari tentennamenti intorno alla sua linea d’ombra nelle puntate prendenti, diserta definitivamente l’FBI e si arruola nella banda come ladro di complemento.
Nuovo di zecca è soltanto il piedipiatti Luke Hobbs (Dwayne Johnson), che col suo metro e novantadue per 120 chili, costituisce l’innovazione di maggior peso della pellicola. Questo Terminator col distintivo è il nuovo, agguerrito antagonista di Dominic Toretto (Vin Diesel), che resta comunque l’icona incontrastata dell’intera serie. Lo scontro tra le due nerborute star, costato parecchi ematomi alle loro rispettive controfigure, fa parte delle trovate per estrogenare allo spasimo la tensione del quinto capitolo, assieme all’ammasso rutilante di scene acrobatiche, esaltate dal prisma di inquadrature multiple e da impressionanti scelte tecniche di ripresa, effettuate anche sul filo dei duecento all’ora. Mozzafiato sono anche gli effetti speciali, il montaggio turbocompresso, le oltre 150 auto distrutte sul set, il remix esplosivo di reggae, dance hall giamaicano e hip hop latino, sparati a tutto volume per pompare le scene d’azione. Questa esasperazione parossistica della dimensione adrenalinica, tuttavia, finisce per ingoiare tutto il resto, trasformando il film in un videogame, con conseguente caduta verticale della consistenza narrativa. Si perde allora quel filo di suggestione che aveva animato il confronto tra guardie e ladri alle origini della saga. Allora, circa dieci anni fa, Dom e Brian civettavano virilmente sul confine tra legge e crimine, tra bene e male, tra luce e ombra, un po’ come Patrick Swayze e Keanu Reeves in Point Break.
Adesso, invece, il match tra l’erculeo sbirro wrestler, meglio noto al grande pubblico come The Rock, e l’altrettanto anabolizzato bullo latino punta tutto sulla suspense testosteronica degli scontri tipo King Kong vs Godzilla, Alien vs Predator. Alle origini, pur senza alcun intento di denuncia o affresco sociale, Fast & Furious raccontava o almeno accennava al disagio di una rombante gioventù bruciata, che cercava nelle corse clandestine una disperata occasione di riscatto identitario, compensava il degrado morale e sociale di una vita borderline con l’adorante ossessione estetica per le fuoriserie, trovava nel culto dei motori truccati, dei propellenti addizionati, dei telai modificati, rinforzati e ibridati anche una forma di risarcimento da una condizione di frustrazione psicologica e sociale. Anche allora c’era soprattutto ed essenzialmente azione, beninteso, ma tirava pure aria di emarginazione, quella del sottoproletariato urbano dei latinos, coi bellicosi rituali delle loro gang, le rabbiose espressioni della loro controcultura, il feroce codice d’onore delle loro vite criminali. Di quell’antica banda di disadattati di periferia e del loro mondo non c’è quasi più traccia oggi. Nel quinto livello del videogame, infatti, il calibro delinquenziale di Vin Diesel e i suoi lievita all’inverosimile, trasformandoli in un commando capace di una proiezione criminale internazionale, un A-Team che non si limita a sgraffignare automobili, ma può sbrigare qualsiasi Mission Impossible, compreso il furto di 100 milioni di dollari a un signore della droga brasiliano (Joaquim De Almeida).
Quanto alle corse clandestine, anche se non scompaiono, finiscono un po’ ai bordi della storia, ridotte a citazione delle puntate precedenti, omaggio decorativo alle origini povere. Stessa sorte tocca, incredibilmente, al parco macchine. Infatti, anche se Vin Diesel conserva la sua splendida Dodge Charger del 1970, sparisce lo scintillante motor show degli inizi, fatto di amore collezionistico per l’esemplare raro, odore di officina, passione per la meccanica delle componenti, culto feticistico degli accessori, voluttà tattile della guida. Al suo posto, anonime vetture usa e getta o inauditi mostri meccanici adatti a superare gli ostacoli del livello cinque. Questa prossimità della pellicola al videogioco è tarata sulle abitudini di consumo crossmediale delle giovani generazioni. In questa prospettiva, il blockbuster anticipa il lancio commerciale del videogame, mentre il videogame prosegue e sviluppa interattivamente il discorso inaugurato dal film. Consapevole di questo meccanismo, qualche anno fa Vin Diesel ha messo su una società di software, brevettando videogiochi campioni d’incassi tratti da suoi successi cinematografici, come The Chronicles of Riddick. La star ha capito benissimo che la boccia rasata, i bicipiti fuori misura e la perenne, strafottente postura da quarto di manzo sono già da tempo il redditizio marchio di fabbrica non solo del suo personaggio cinematografico, ma anche del suo avatar digitale.
Mirko Benedetti