LA VERITÀ TRAGICOMICA IN UNO SPECCHIO CINESE
Allora la luce bastarda del magazzino cinese ha compiuto il reato. Perché scommetto che è colpa delle luci cinesi. O del berretto che avevo in testa, o del sonno.
Non lo penseresti mai, che può accadere in qualsiasi momento. Che un crimine può essere commesso una mattina qualunque, mentre sei alla cassa di un bazar da due soldi. Eppure mentre mi chino a sorridere a Isabelle e qua e là raccatto frammenti di una Sarah cui oggi ho fatto bigiare la scuola, pam! Una finestra più alta di me, lucida, chiara, forte e sanguinaria, sotto forma di uno specchio: dentro quel buco finto di vetro e alluminio c’ero io. E, giuro, ci ho messo un attimo a capirlo.
Che è come cadere dopo che ti hanno colpita.
Perché un conto è a casa. Sei sfatta, in pigiama, e poi quando, dai, quando ti guardi allo specchio? Al mattino, che sei abbastanza rincoglionita da non farci attenzione, ma anche tanto-appena-alzata che è ovvio che fai pena. E c’hai la faccia a coste, le impronte del cuscino. E poi la sera, che sei abbastanza rincoglionita da non farci attenzione, ma anche tanto-quasi-sfinita che è ovvio che fai pena. E, comunque, vedersi in privato non è del tutto sconvolgente, come a dire: se nessuno mi becca posso non credere a quello che vedo.
Un conto è lì. Davanti a tutti. Ben quattro clienti e queste cinesi che hanno stretto un patto con non so chi o forse taroccano anche la pelle e il DNA, e non si sa come ma non invecchiano mai.
Comunque per riconoscermi ho messo due lunghissimi secondi: col primo ho riconosciuto Sarah, in quello stesso specchio. Col secondo Isabelle e il passeggino (segno che lo specchio funziona a dovere). E a quel punto non ho più avuto dubbi: se il buonsenso non m’inganna quella roba lì in mezzo, la pelle decisamente grigia (appena più chiara del berretto) una specie di wafer a strati al posto della fronte e due parentesi ai lati della bocca sono io.
Mi sono guardata per altri due lunghissimi secondi: a parte il visibile sgomento (ma che è, tutta in una notte sono invecchiata? Perché non mi sembrava d’esser così, ieri), con benevolenza ho cercato la serena accettazione.
Madda, fattene una ragione.
Quelle due parentesi di rughe possono solo peggiorare. Il colorito della pelle, i capelli: potrai colorarli e inseguire l’illusione, ma lotti contro il vento. Le macchie del derma, gli occhi infossati? La faccia stanca più di quando dormivi ben meno? Fattene una ragione: stai diventando quella cosa lì.
Stai diventando quelle che incontravi e consideravi “signore”. Quella professoressa di cui, riferendo ai tuoi, dicevi “una di mezza età”. Sei la madre del tuo compagno di banco, la signora della parrocchia che ti pizzicava le guance. La segretaria di papà, la pediatra che avevi da bambina, e ogni altra persona che ti sembrava grande.
E ancora, al supermercato accanto, mentre sosto in coda con due panini recuperati per un picnic in cucina: questo cartello delle precedenze in cassa, per esempio… fattene una ragione: non hai più alcuna chance di sfruttare la figura n.1. Puoi sperare, semmai, nella seconda.Al passeggino su cui ti appoggi a peso quasi morto subentreranno sacche qualunque (e già va bene se smetteranno con questa cosa del bio, che saranno pure di mais, ma, diciamolo: non reggono dalla cassa all’uscita e, anzi, normalmente sollevi i manici dal nastro e solo i manici vengono via con te, il resto rimane lì a fondo cassa). All’abitudine ben consolidata di aggrapparti a un qualsivoglia manico mentre vai in giro potrai sostituire, se t’aggrada, il manubrio d’una bicicletta, giusto per sincerarti che l’artrosi ancora non ti ha acciuffata.
Allora somiglierai a quelle signore con la tinta a metà, il gambaletto a metà, la vita a metà e il cesto davanti: tu le hai sempre considerate della terza età, ma ora che esiste la quarta e ora che tu non sei più nella prima, riconosci che devono essere a metà vita, non di più. Davanti gli rimane un cinquantennio da passare a tirar su l’altra metà del gambaletto, spingere la bici con vaghe pedalate e riempire la sola ricchezza che hanno davanti: il cesto, appunto.
Poi, passata anche la fase ardita del ciclo (quello femminile l’avrai già perso da un pezzo), declinerai verso la spietata controparte del passeggino d’un tempo: l’ultima, possibile illusione di spingere e gestire ancora qualcosa, soprattutto tra le vie cittadine. Quel carrellino stanco, in verità un deambulatore, che mentre ti regge neanche fossi una giarrettiera destinata all’ammoscio, riempi d’ogni ben di dio per simulare che ti valga a carrello della spesa.