Ultima parte di una tetralogia a dedicata al potere, nelle sue varie esternazioni e devianze, opera del regista russo Aleksandr Sokurov (Moloch, Taurus, Il sole, incentrate, rispettivamente, sulle figure di Hitler, Lenin ed Hirohito), Faust, vincitore del Leone d’Oro alla 68ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, è un film la cui visione mi ha particolarmente appagato, tanto da un punto di vista visivo che contenutistico, pur riconoscendo come la sua impostazione complessiva, lontana anni luce dagli stilemi cinematografici più in voga, richieda una partecipazione attiva dello spettatore, rispecchiando un’idea di cinema alla quale, forse, non si è più abituati.
La mia impressione, comunque, è che la storia si dipani con una certa scorrevolezza (la sceneggiatura è opera dello stesso regista e di Marina Koreneva), pur nell’evidente impatto teatrale, ulteriormente sottolineato dai dialoghi serrati, non privi di un certo umorismo, e nella frequente ricorrenza di simbolismi non sempre facilmente comprensibili di primo acchito: l’insolito, “antico”, formato della pellicola, che riporta sullo schermo il quadrato smussato ai bordi, è del tutto simile al sipario di un palcoscenico o, meglio, ad un quadro, considerando le influenze pittoriche (Bosch), riguardo scenografia (Yelena Zhukova) e fotografia (Bruno Delbonnel), all’interno del quale viene rappresentato, costretto e spesso deformato nell’inquadratura, l’eterno cammino dell’essere umano, sospinto dalla sua ansia di conoscenza.



Una volta esaurita la sua ricerca in terra, soddisfatto nei suoi desideri materiali dal diavolo, condotto da questi in un “altrove”, un aldilà desolato, dominato dagli elementi naturali, Faust non esaurirà la sua vacua lotta razionale: una volta fatta fuori la sua guida, continuerà a peregrinare, solitario, preferendo al libero arbitrio la solipsistica soddisfazione di andare sempre oltre, alla continua ricerca di un confine da varcare, di un senso da conferire a quanto ci circonda che vada al di là del mero potere esercitabile su di esso, senza rendersi conto di come proprio nella mancanza di un significato da attribuire a tutto ciò, “colonne d’Ercole” concrete e difficilmente superabili, risieda il nucleo essenziale dell’arco vitale.





