A sei anni da Sono l’ultimo a scendere, uscito nel 2009 per Mondadori e vincitore del Premio Settembrini 2011, torna alla narrativa Giulio Mozzi, ormai da anni uno dei più apprezzati scrittori italiani. Ma il tema che è al centro di questo suo Favole del morire è ancora precedente: sono infatti passati quindici anni da Il culto dei morti nell’Italia contemporanea (“Uno dei più bei libri di poesia italiana del secondo dopoguerra”, come ha scritto Aldo Nove).
In questo nuovo volume sono raccolti testi scritti tra il 2003 e il 2014 nei quali Mozzi ha continuato a esplorare, secondo le sue parole, “ciò su cui medito tutti i giorni: non la morte, ma il morire”.
Nulla di consolatorio o di edificante, in un libro che fin dalle scelte formali – un andirivieni continuo tra prosa, teatro, verso; una sintassi violentemente scorciata; un lessico brutale; una sovrapposizione sfrontata di tragico e comico – può sconcertare il lettore. E chi abbia il coraggio di addentrarvisi, come ci si addentra alle sagre nella Casa delle streghe, e di accogliere di favola in favola le mutevoli apparizioni del morire, incontrerà alla fine del testo la più paradossale delle dichiarazioni di fede (o, forse, di scetticismo radicale): “Questa è la speranza: un’immaginazione”.
Non sarà un caso, dunque, se l’immaginario e la scrittura di questo libro richiamano così tanto e spesso quella delle sezioni dovute a Mozzi del piccolo, prezioso libro Dieci buoni motivi per essere cattolici (Laurana, 2011) scritto insieme a Valter Binaghi. E infatti a Binaghi, scomparso il 12 luglio 2013, Favole del morire è dedicato.
Perché vale la pena di leggere Favole del morire? Perché in un tempo di consumo editoriale sfrenato, in cui i libri vengono scritti in fretta e bruciati sugli scaffali in poche settimane, ci troviamo di fronte al raro caso di un’opera lungamente meditata. Centosessanta pagine frutto di più di dieci anni di lavoro.
Perché il tema affrontato – non la morte, ma il morire: è cioè il momento in cui si passa da uno stadio all’altro – ci riguarda inevitabilmente tutti. Ed è il vero, grande tema della nostra esistenza. Perché a renderci pieni di sgomento è proprio la soglia da varcare, più di quello che troveremo di là, se lo troveremo.
Infine perché Giulio Mozzi, felice possessore di un immaginario colmo di apparizioni, è in grado di perlustrare, forse anche contro la sua volontà, degli spazi di reale che si intersecano a quello che sentiamo e vediamo comunemente. E a restituirceli in pagine che fanno dell’esattezza nella scelta di ogni singola parola motivo d’incanto.
Giulio Mozzi è nato nel 1960. Abita a Padova. Lavora come consulente editoriale e come insegnante di scrittura e narrazione. Ha pubblicato sei raccolte di racconti e due opere in versi. Da ricordare, per certe affinità con Favole del morire, i pamphlet Corpo morto e corpo vivo (Transeuropa, 2009) e Dieci buoni motivi per essere cattolici (Laurana, 2011; con Valter Binaghi). Presso Laurana sono uscite le nuove edizioni di alcune sue opere: La felicità terrena (del 1996; nuova edizione Laurana, 2012); Il male naturale (del 1998; poi, Laurana, 2011); Sono l’ultimo a scendere (e altre storie credibili) (del 2009; poi Laurana Reloaded, 2013). Pubblica in rete dal 2000 il bollettino di letture e scritture vibrisse: vibrisse.wordpress.com Insieme a Gabriele Dadati conduce a Milano la Bottega di narrazione.
L’incipit
Del morire non sappiamo niente. Però ci immaginiamo. Vediamo gli altri morire. Moriremo, questo è certo. Da sempre ci immaginiamo. C’è chi dice che immaginare sia stupido. C’è chi dice: è la fine, stop. Io che cosa dico? Morirò, mi trasformerò. Che cosa muore di me? Il corpo resta lì, ma dura poco. Il corpo è cibo. Qui da noi non ci sono coyote, iene, avvoltoi. Qui da noi ci sono animaletti minuscoli, batteri. Mi mangeranno i batteri. Farò odore di fogna. Farò puzza di morto. Diventerò fonte di vita per altri viventi, destinati come me alla morte. Quanti viventi ho mangiati, nella mia vita? Quante vacche, quanti maiali, quanti conigli, quante galline, quanti tonni, quanti pescispada, quante biete, quanti spinaci, quante insalate, quanti radicchi, quante cipolle, quanti finocchi, quante patate, quanti funghi? Di quanti viventi, nella mia vita, ho mangiati i frutti destinati alla riproduzione? Quanti pomodori, quanti piselli, quanti cetrioli, quante mele, quante pere, quante banane, quante pesche, quante albicocche, quante prugne, quante fragole, quante uova? Di quanti viventi ho mangiato, nella mia vita, il latte destinato alla prole? Quanto latte di vacca, di capra, di pecora, quanti formaggi di vacca, di capra, di pecora? Di quanti viventi io sono stato, vivente, la tomba? Non c’è nessuna colpa. Siamo nati per mangiare, siamo nati per mangiarci. Siamo aminoacidi volitivi. Vogliamo riprodurci all’infinito.