Maruyama, the Middle Schooler di Kudo Kankuro
Chugakusei Maruyama, Giappone, 2013, 120 min.
voto: ★★/4
Non poteva mancare anche quest’anno la commedia demenziale giapponese, pregna di cultura pop e comicità non-sense. In verità di pellicole di questo tipo ce n’erano più d’una – su tutte, It’s me, it’s me del grande Miki Satoshi – anche troppe a parere di chi scrive, col rischio di monopolizzare la pattuglia nipponica, minimizzando l’estrema varietà della sua cinematografia. Kudo, attore, sceneggiatore e regista alla sua terza prova, parte da uno spunto decisamente bizzarro: il suo protagonista, lo studente delle medie Maruyama, ha come obiettivo nella vita quello di riuscirsi a leccare la punta del pene. Per questo entra nel club di wrestling della scuola e si allena costantemente, giorno e notte, ovunque si trovi, per il raggiungimento di questo ambito traguardo. A fare da corollario una famiglia – e dei vicini – ognuno con le proprio stranezze, per una serie di sotto-trame tra le quali spicca quella della madre, la quale cerca impunemente di sedurre l’elettricista, una volta star di telefilm coreani. C’è anche una cornice blandamente da “giallo” con un misterioso assassino che uccide tutti i criminali della zona.
Non si può dire che Kudo pecchi di fantasia e anzi eleva questo elemento a filosofia di vita, spingendo il suo protagonista a elaborare gli scenari più assurdi che poi gli permetteranno di “trovare la verità” (e al pubblico di ridere di gusto). Il regista infatti azzecca spesso trovate paradossali e divertenti, condendo il tutto di citazioni assortite tra le quali la mia preferita è sicuramente quella dedicata a Kozure okami, ovvero lo stupendo manga (e serie tv, e film) di Lonewolf & Cub. L’accumulo di situazioni in formato sketch vanno però a ingolfare la storia principale – essa stessa solo un pretesto – finendo con lo spezzettare il ritmo della pellicola, rallentata ulteriormente dalla ripetitività di alcune trovate, soprattutto nel finale (due ore sono decisamente troppe per una commedia del genere).
Il motivo principale che non eleva il film di Kudo oltre la medietà, oltre al soggettivo gusto comico, non proprio per tutti, è che l’apparente genialità di molte gag rientra in realtà in una sorta di “follia controllata” ben assorbita dal cinema di genere giapponese, dimostrando come non basti assemblare insieme un certo numero di idee strambe per farne un buon film. Con una, spero perdonabile, semplificazione sociologica si può supporre che questo genere di cinema proliferi laddove una società estremamente rigida sente il continuo bisogno di sfogare e esorcizzare le proprie stranezze, attraverso la forza dirompente della fantasia. Non a caso le situazioni comiche di Maruyama, the Middle Schooler, partono proprio dalla quotidianità di un gruppo di personaggi che vivono in un normalissimo complesso residenziale. Effetto positivo di questo sdoganamento dei tabù nipponici al cinema, è quello di poter trattare con estremo tatto e senza alcuna malizia temi che, se rappresentati in Italia, provocherebbero uno scandalo di proporzioni epiche; si guardi su tutti il “fidanzamento” tra la sorellina di 10 anni del protagonista con il nonno affetto da Alzheimer di un altro personaggio che, in una delle scene migliori del film in piano sequenza, ritrova se stesso in uno sgraziatissimo concerto punk-rock. Un romanzo di formazione a tratti originale e spesso divertente, ma troppo sfilacciato narrativamente e poco compiuto dal lato tecnico.
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The Complex di Nakata Hideo
Kuroyuri danchi, Giappone, 2013, 106 min.
voto: ★★/4
Cosa aspettarsi dal nuovo lavoro di Nakata Hideo, uno dei padri fondatori del j-horror che a cavallo tra gli anni novanta e il duemila ha invaso anche le nostre sale, contribuendovi con lavori seminali e influenti quali Ringu e Dark Water? Dopo l’omaggio del 2007 all’horror tradizione di Kaidan e l’incursione nel mondo degli adattamenti con L: Change the world, Nakata torna nel territorio a lui più congeniale, rifacendosi a quegli stilemi, ostinatamente e forse fuori tempo massimo, come il sodale Shimizu Takashi (il quale, però, almeno ha sperimentato le possibilità delle tre dimensioni con gli ultimi The Shock Labyrinth e Tormented). The Complex si inserisce in quel filone caro ai giapponesi dell’horror psicologico, dove quindi lo spettatore non deve aspettarsi i classici spaventi preconfezionati hollywoodiani, quanto piuttosto angoscia e tensione che serpeggiano nel non-visto e nei traumi passati dei protagonisti.
In questo senso il film di Nakata riesce anche ad essere efficace, soprattutto nella prima parte, quando la spaventata Asuka (Maeda Atsuko), appena trasferitasi con la famiglia nel “Complesso popolare del Giglio nero” (traduzione del titolo originale ed edificio che ricorda quello del già citato Dark Water), scopre con orrore la morte dell’inquietante vicino di casa; una scena di notevole tensione (pur senza essere spaventosa nel senso classico del termine) anche grazie ad una illuminazione affidata al solo cellulare della ragazza. Dopo questo avvenimento la salute mentale di Asuka diverrà sempre più instabile, ossessionata dal senso di colpa e convinta di essere perseguitata dallo spirito dell’uomo morto. A cercare di aiutarla nel venire a capo della vicenda ci sarà Sasahara (Narimiya Hiroki), un ragazzo di un’agenzia di pulizie, anche lui con alcuni scheletri nell’armadio. Nakata nella prima ora semina con perizia una serie di elementi vagamente inquietanti per poi adoperare il più classico dei ribaltamenti narrativi all’insegna del “nulla è come sembra”, un altro dei topoi di questo genere. La strana routine della famiglia ogni mattina, l’incubo ricorrente della protagonista, il bambino che gioca da solo nel parco, sono espedienti non originali, ma che comunque contribuiscono a costruire l’atmosfera e coinvolgere lo spettatore.
Il problema sta però nel maneggiamento della materia più propriamente horrorifica che avviene, e non è la prima volta, in maniera scontata, rischiando a più riprese il ridicolo involontario (centrandolo in pieno in almeno una sequenza), minando per buona parte le promettenti premesse e adagiandosi su cliché risaputi per chi mastica il genere. Le scelte estetiche che Nakata adotta in questa seconda parte sono però interessanti da analizzare, perché possono in qualche modo chiarire gli intenti del regista o, almeno, le sue fonti d’ispirazione. La fotografia “acquosa” che privilegia colori primari molto netti, è infatti un esplicito omaggio a tutto l’horror nipponico degli anni Sessanta e Settanta, con in testa Nakagawa Nobuo e il suo capolavoro Jigoku. Una scelta curiosa che vuole richiamare pellicole che facevano di quelle luci fortemente anti-naturalistiche un punto fermo da cui creare un Altro-mondo onirico e spaventoso, puntando proprio sulla costruzione dell’atmosfera, in mancanza degli adeguati effetti speciali. Un’interpretazione che sembra confermata anche dalla scena (non così riuscita) dell’esorcismo, che inserisce una nota arcaica e di folklore in un film fino ad allora perfettamente moderno, anche se qui la tecnologia viene lasciata stare. Forse The Complex è il tentativo da parte di Nakata di fondere gli stilemi delle due più prolifiche stagioni dell’horror in Giappone, ma corre il rischio di passare per poco più di uno sterile omaggio.EDA