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Felisberto che morì non sapendo di sapere, su SUR

Creato il 29 giugno 2011 da Fabriziogabrielli
E poi niente: oggi, sul blog di edizioni SUR, ci sono due articoli dedicati a Felisberto Hernàndez, un autore sconosciutèrrimo in Italia che se non l'hai letto almeno una volta non sai cosa ti perdi. 
Il primo è di Francesca Lazzarato, è uscito pure tempo fa su Il Manifesto; il secondo mio, s'intitola Felisberto che morì non sapendo di sapere e fa così:
* * *

“Dimentico sempre di portare con me un paio di lenti per vedere bene il verde delle piante che hai negli occhi; però una cosa la so già, il colore della tua pelle: quello lo ottieni strofinandoci su le olive”.
Difficile credere che Felisberto Hernández, descrivendo la beltà di María protagonista di Las Hortensias, uno dei suoi racconti più riusciti e famosi, non avesse i pensieri rivolti alla  terza moglie, María Luisa de Las Heras, alla quale il racconto è dedicato: “A María Luisa, nel giorno in cui ha smesso di essere la mia fidanzata”, recita l’esergo, datato 1948.
Felisberto e María Luisa si erano conosciuti a Parigi un anno prima. L’uruguagio, pupillo del poeta franco-montevideense Jules Supervielle, era stato introdotto al Pen Club di Lutezia nell pomeriggio del 13 dicembre 1947 come “lo scrittore più originale dell’America Latina”. All’incontro erano presenti il poeta argentino Oliverio Girondo, lo stesso Supervielle, Roger Caillois; ma Felisberto non aveva occhi che per quella mulatta dallo sguardo venato di smeraldo e la pelle olivastra, i tratti austeri, la chioma corvina, che parlava con uno spiccato accento andaluso (era oriunda di Ceuta) e aveva una grazia tale da lasciare tutti a bocca aperta: María Luisa.
Che poi, in realtà, non si chiama María Luisa. O almeno: non propriamente.
 María de La Sierra, Znoi, Maria Pavlovna, Patricia, Ivonne, María Luisa: non sono che alcune delle identità posticce di Africa de Las Heras, colonnello dell’Armata Rossa e membro (col nome in codice di Patria) dei servizi segreti sovietici — quella NKVD che si sarebbe poi trasformata nel KGB — un passato da ribelle comunista nella Spagna del Generalísimo Franco, un ruolo di spicco nella Seconda Guerra Mondiale (era addetta al reparto telecomunicazioni, il suo compito era quello di diramare false informazioni nei reparti tedeschi), un oscuro coinvolgimento nell’omicidio in Messico di Leone Trotzky.
 Le nozze di Felisberto e María Luisa, celebrate nel ’48, durarono poco, soli due anni: la missione della de Las Heras era quella di installarsi a Montevideo e organizzare una fitta rete di spionaggio latinoamericana in piena guerra fredda.
Portato a compimento — peraltro con successo — il delicato compito l’infelice coppia poté sciogliersi, ponendo fine alla farsa.
María Luisa avrebbe continuato a trasmettere messaggi in codice in lungo e in largo per tutto il Sudamerica con la sua Enigma.
Felisberto, di par suo, si sarebbe rinchiuso in uno scantinato continuando a scrivere e detestare il mondo, fino alla fine dei suoi giorni.
Più che la vita segreta di Africa, rovistando nella quale si potrebbe collezionare materiale sufficiente per più d’un romanzo, vale la pena far luce su un particolare decisamente conturbante: il sottile fil rouge che serpeggiando per tutto Las Hortensias sembra fornire prove convincenti abbastanza per sfatare un’opinione comune, quella secondo la quale Felisberto Hernàndez morì ignorando la verità sulla delicata — e inusuale — situazione nella quale si era ritrovato, suo malgrado, coinvolto.
 Si è detto, di Hernández, che sprofondato com’era in un pantano acquitrinoso fatto di infantile egoismo e ossessiva ricerca — rasente la pazzia — d’un filo di raccordo tra i suoi Io e Super-io, non fosse mai riuscito a osservare e valutare niente e nessuno con quella che tendiamo a chiamare “lucidità”.
Dopotutto, se c’è un elemento ricorrente in tutta la sua produzione narrativa è proprio quell’indefesso insistere sui temi dell’irrazionalità, del falso, della scoperta, della sorpresa: dell’enigma.
A noi non è dato sapere il motivo per il quale il KGB avesse scelto proprio lui, come gancio: forse per il suo anticomunismo viscerale. Forse per la sua naturale predisposizione alle relazioni ingarbugliate.
O fors’ancora, ipotesi certamente più suggestiva, perché il destino, a volte, è semplicemente così: subdolo e sottile.
 Tra le righe di Las Hortensias, a decifrarle, sembra celarsi — se ne avverte l’eco lontano, come da dentro uno scafandro — il disperato monito di Felisberto: ho capito chi siete, cosa volete da me, so precisamente cosa sta succedendo.
Centralissimo è il tema della messinscena.
Horacio, il protagonista, colleziona bambole poco più alte delle donne reali. Con l’ausilio di un’equipe di costumisti, scenografi, musicisti, scrittori che si prestano alla stesura delle legende pone in opera tutta una serie di mise en scene.
Tiene le sue protette in stanze di vetro, nello scantinato. “Il fatto di vedere le bambole in vetrina è molto importante, per via del vetro”, confessa: “è questo a conferire quella certa qualità di ricordo”. Illucido. Patinato. Opaco. “Quando guardo una scena mi sembra di scoprire un ricordo che una donna ha in un momento importante della sua vita; è qualcosa tipo come se gli stessi aprendo una fessura nella testa. [...] Ho l’impressione di violare qualcosa di sacro”.
Sacro, come un segreto.
Le scene sono accompagnate da un suonatore di piano in frac — forse un cammeo che si regala Felisberto, un passato da pianista nelle sale polverose del cinema muto; spettatori silenti e accondiscendenti sono il valletto di casa, Alex — che non a caso, forse, è russo — e la moglie di Horacio, María Hortensia, che porta lo stesso nome, come scoprirà in seguito spaventosamente il lettore, della bambola.
La malsana mania di Horacio si farà via via, e incessantemente, più morbosa: all’iniziale somiglianza con la moglie, ottenuta nella bambola riproducendone il colorito dell’incarnato e irrorandone il corpo posticcio con essenze familiari al vero simulacro, si aggiungeranno follie più o meno perverse: verrà riprodotta nella bambola la tepidità umana, con l’aggiunta di acqua calda; e verranno poi apportate modifiche tali da rendere Hortensia una vera e propria creatura erotica.
Reiterando la sua personalissima falsificazione del peccato originale Horacio comincia a cogliere nelle bambole dettagli perturbanti: “[...] erano piene di presagi; gli sguardi bramosi che volavano verso le loro facce da donna innocente le contagiavano di primitiva cupidigia; dopodiché somigliavano a esseri mesmerizzati, che compivano missioni prestandosi inconsapevolmente a disegni malvagi”.
 C’è da immaginarsi l’espressione che può aver fatto Africa alla lettura del racconto: quella di un essere mesmerizzato.
Specie quando le capitò di imbattersi nel passo in cui Horacio, confrontandosi con Alex sulle parvenze di una nuova bambola acquistata per obnubilare il ricordo della moglie fuggita di casa, chiede: “Che ne pensi, di questa?”.
“Molto bella, signore”, gli risponde il valletto. “Somiglia molto a una spia che ho conosciuto in guerra.”
Somiglia molto a una spia.
 Forse non possiamo spingerci così in là da affermare che Felisberto Hernández avesse carpito esattamente tutti i dettagli del losco affare in cui s’era trovato impantanato.
Eppure non possiamo evitare di intuire strane e persistenti similitudini tra il racconto della messinscena e quella nella quale lo scrittore uruguaiano si trovava ad essere attore non protagonista: proprio come Horacio con le sue bambole, il NKVD non maneggiava forse Africa e Felisberto a proprio piacimento?
Cos’erano i due, nelle mani dei gerarchi dell’Armata Rossa, se non bambole sprovviste di personalità, volontà, di una vita propria?
Forse Felisberto non ha mai saputo chi fosse davvero la donna che aveva sposato, non nel senso classico della parola sapere.
Come la María protagonista del racconto, che sebbene sappia cosa sta succedendo ne perpetua volontariamente gli effetti, non senza una buona dose di autolesionismo, anche Felisberto, in un certo qual modo, dimostra di aver saputo: di aver saputo cogliere, con la sua mezza dozzina d’occhi celati, muovendosi tastoni nella penombra, subodorandola di pancia, l’essenzialità della trama, tutta la verità.
Fu così, che morì Felisberto Hernández: non sapendo di saperla perfettamente, la verità.

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