Il primo amore, Fulvia, continua a risplendere nel suo cielo interiore, una singolare donna-angelo con trecce di bambina; i ricordi sono così fervidi da confondersi con il piano della narrazione, mentre una canzone proveniente dall’oltreoceano, Somewhere Over the Rainbow, fa da colonna sonora al flusso di coscienza. L’odio accumulato durante le lotte, quell’odio che l’ha portato a scappare e inseguire, piangere e ridere, uccidere e veder uccidere, non ha mutato un sentimento così semplice e doloroso; la bruciante gelosia verso colui che potrebbe avergli sottratto l’amore, genera delle fisiologiche reazioni a catena, che vanno dal bisogno impellente di rivedere gli occhi di Fulvia, alla bramosia di toccare con mano il motivo della propria disperazione. Una tenerezza commovente ci induce all’empatia più solidale, e vorremmo quasi abbracciare questo ragazzino magro che fatica ad addormentarsi a causa dei troppi pensieri: «C’era di mezzo la più lunga notte della sua vita. Ma domani avrebbe saputo. Non poteva più vivere senza sapere e, soprattutto, non poteva morire senza sapere, in un’epoca in cui i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere». Milton non riesce ad accettare il presente, si ostina a tenere in vita il passato, e, di conseguenza, non potrà mai avere un futuro: amore e giovinezza diventano la sintesi di una vita, che, necessariamente, si esaurisce nella durata di una stagione. Il fascista rappresenta un’entità nemica di minore importanza rispetto al rivale, Giorgio il bello. Piano della storia e piano individuale, che procedevano in parallelo, si biforcano nel momento in cui Milton decide di costruirsi la rovina con le proprie mani, contemplando come unico obiettivo il compagno traditore: perde senso il contesto della lotta collettiva, tutto viene sacrificato in nome del bene superiore, la riconquista di Fulvia. Non si arriva alla follia di Orlando, forse, ma nemmeno a un’incontenibile menis achillea. Avulsa dalle contingenze della Resistenza, la vicenda avrebbe le sembianze di un quotidiano regolamento di conti tra rivali; ma quella violenta tensione di impulsi opposti, eros e thanatos, amore e morte, mi fa riflettere sul profondo valore che quei ragazzi coraggiosi davano alla vita, anche se di breve durata. E non vorrei esagerare dicendo che Fenoglio ha condensato, in questo romanzo, tutto ciò che manca a molte delle odierne storie d’amore: odio, odio vero, ribollio tangibile di sangue, fatica stremante, e, soprattutto, la rinuncia a tutto come dono sacrificale per la persona amata. Del resto, mi basta leggere una frase a caso estratta da un libro di Fabio Volo, per rendermi conto dell’aria fritta che, ahimé, ci tocca respirare: «L’amore per sé è il ponte necessario per arrivare all’altro». Per un uomo in preda alla crisi di mezza età, sicuramente; ma sono certa che un qualsiasi giovane alter ego di Fenoglio non avrebbe esitato un istante a raggiungere la disaffezione di sé per vivere, un ultimo istante, del pensiero della donna amata: «Fulvia, non dovevi farmi questo […] Tu non devi sapere niente, solo che ti amo. Io invece debbo sapere, solo se io ho la tua anima […] Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti». È il neoplatonismo più diretto e spontaneo, l’immagine da brivido dell’amante-ladro che ruba l’animo all’amata, la quale continua a vivere nella sua mente. Un unico amore per tutta la vita, un unico amore che è la vita stessa.
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