Firenze – Santa Maria del Fiore in una foto tratta dal libro “Firenze” di Tarchiani Nello, 1878
Tornato il granduca, Don Antonio si rìpresentò : di bluse di velluto, di cappelli alla Ciceruacchio neppur l’ombra per le vie di Firenze ; soldati austriaci montavano la guardia a Palazzo Vecchio e di dimostrazioni clamorose e minacciose non c’era oramai più pericolo. Morto Don Rodrigo, Don Abbondio aveva ripreso animo e ora si offriva per l’ufficio di Mentore peripatetico, che la paura lo aveva costretto a renunziare l’anno prima. Gli fui, ahimè! novamente affidato.
Obbligo suo condurmi a spasso quattro volte la settimana, tutti i giorni durante la villeggiatura, ripassare meco ogni tanto la grammatica latina, insegnarmi la Storia Sacra. L’ultima di queste diverse funzioni era la sola che non mi fosse sgradita ; non già per desiderio di apprendere, ma perché Don Antonio aveva frequentissimo nel discorso un intercalare; « così tra una cosa e Valtra »; e a me, sebbene ragazzo, non sfuggiva in quell’ insegnamento la comicità di certe locuzioni e mi ci spassavo: « nel sesto giorno, Iddio, così fra una cosa e l’altra, creò l’uomo ».
Ma quelle passeggiate!
Perchè bisogna sapere che Don Antonio era una specie di procaccia liturgico sempre in caccia di messe, ora per questa ora per quella parrocchia, ora per quella festa ora per quel funerale. Di qui il cercare affannoso del tal prete e del tal altro e le frequenti dimore e i lunghi bisbigli nelle sagrestie, mio fastidio e tormento, che i compagni di scuola incrudivano, descrivendomi le loro ricreazioni nel giardino, di Boboli, o raccontandomi le loro gite fuori le porte della città.
Io, che mi compiaccio del non avere da uomo fatto odiato nessuno. Don Antonio lo odiai da fanciullo di un odio implacabile. Delle noie patite in città mi vendicavo bensì con acre godimento in campagna. Al suo piccolo corpo grassottello, alla sua pelle rosea, quel pretonzolo di trenta o trentacinque anni era affezionatissimo, e fin qui si capisce: difficile invece, se non a capire, a scusare in uomo sano e dell’età sua le perpetue irragionevoli apprensioni, alle quali la rosea pelle e il grassottello corpo lo condannavano. Per una leggera sudata, paura di malattia; per un frutto mangiato fuor d’ora, paura di indigestione; in carrozza di rado e quando non si potesse in altro modo per paura di ribaltamenti, in barca non mai per paura di naufragio.
Lo sapevo e in campagna ne profittavo per conseguire due fini ad un tempo: indispettirlo e star con lui quanto meno fosse possibile. Nell’andare a zonzo ogni giorno con lui per i piani e i colli valdinievolini, appena una occasione si presentasse subito la coglievo: prossimo, per esempio, alla strada che percorrevamo, si stendeva a traverso un viottolo uno stretto ponticello di legno senza ripari laterali : subito piantavo in asso il mio Mentore, balzavo d’un salto sul ponticello mal sicuro, e lanciato un ironico « venga, venga », me ne andavo pe’ fatti miei ; dall’orlo di una selva per un molto ripido pendìo e tra le felci e le stipe, si precipitava meglio che non si scendesse nel fondo di un burrone e io giù per il pendìo.
Don Antonio imbestialiva, enunciava a gran voce le mie deficienze morali con grande profusione di appellativi, ma quanto a mseguirmi sul ponticello o tra le felci e le stipe, neanche se gli avessero promesso il cappello cardinalizio.
Era dovere suo lo accompagnarmi, dovere mio non allontanarmi da lui. Mancavamo per quelle mie scappate al nostro dovere ambedue; ma egli non poteva denunziarle a mio padre senza accusare sé stesso di timori ridicoli in un uomo giovine ben pasciuto e saldissimo in gambe; e preferiva, quando mi perdeva d’occhio, andare ad aspettarmi in qualche punto, donde tornando, era di necessità ch’io passassi; si che, giunti a casa, nessuno si accorgesse di quanto era avvenuto; spediente ingegnosissimo per dire una bugia senza aprir bocca, e fare sé complice delle mie indisciplinatezze, me complice delle sue simulazioni.
La cosa fini male: in una di quelle mie scorrazzate, messo un piede in fallo ruzzolai tra il folto di arbusti spinosi e caddi sull’alveo sassoso di un torrente a secco. Scalfitture, contusioni un po’ dappertutto; la grave scorticatura d’uno stinco mi dava dolore acutissimo e m’impediva di camminare. Per buona sorte un de’ nostri contadini (avevamo poderi a quel tempo!) venne in soccorso del padroncino; e postomi sulle spalle a cavalluccio, per una scorciatoia mi riportò a casa.
Dopo le cure di mia madre e la sgridata di mio padre vennero le interrogazioni. – Come è accaduto? dove? e Don Antonio dov’era? Arrivava in quel punto. Mi aveva a lungo ansiosamente aspettato nel solito luogo, poi, non vedendomi e cadendo la sera, s’ era risoluto in grande costernazione a tornarsene solo. Nel ritrovarmi cosi malconcio allibi. Stretto dalle domande, nelle quali era implicito il rimprovero, rispose : – Creda, caro signor Vincenzo, creda pure che questo ragazzo, così tra una cosa e l’altra, è un demonio…; e per quanto le domande sì facessero vìa via più urgenti, non seppe dire altro, salvo di mutarmi di demonio in versiera, e di versiera in terremoto.
Mentre con tali inefficaci argomenti s’industriava nella propria difesa, s’accorse di avere dietro di sé una finestra aperta e si mosse frettoloso per chiuderla….
Mio padre dette in una sonora risata e dopo avergli dimostrato che quello di Mentore peripatetico non era mestiere per lui, garbatamente lo licenziò. Mi parve di molto addolcito il frizzìo della scorticatura.
Firenze – Panorama con Orsammichele e Duomo in una foto tratta dal libro “Firenze” di Tarchiani Nello, 1878
Ma fu quello (lasciamo stare per una volta tanto Scilla e Cariddi) un cascare dalla padella nella brace. Tornati a Firenze e mancando l’accompagnatore, mancarono le passeggiate ed io fui affidato alla vigilanza e alla compagnia delle donne di servizio.
Tale era del resto allora l’usanza (pessima usanza!) nelle famiglie di un certo ceto e di una certa agiatezza: i figlioli fuori di casa col prete, in casa con le cameriere; in casa nostra e in quel momento non c’era altro partito da prendere: mia madre malazzata, mio padre all’ufficio la massima parte del giorno; e furono scritte a danno del riposo e del sonno le commedie che gli valsero gli applausi del pubblico e le lodi dei contemporanei ; lunghe veglie, delle quali tutto l’organismo si risentì e la tomba si schiuse prima che la vecchiezza giungesse.
Due nature diverse le due donne alle quali fui dato in custodia, fisicamente e moralmente diverse: un’Adelaide senese, sulla trentacinquina, personificava nel regno animale un’antitesi nel vegetale impossibile ; era secca e verde ad un tempo; una Margherita sui venti o poco più, magnifico fior di ragazza cresciuta tra le felici aure montane del Mugello nativo, rosea e robusta, era il ritratto della salute : l’una fantastica e bigotta, l’altra gaia e spregiudicata.
L’Adelaide era fidanzata a un sergente dei carabinieri (gendarmi, veramente si chiamavano allora) e doveva sposarlo subito ch’egli ottenesse il congedo. Avvenne che una bella mattina (era, ricordo, di domenica ed io tornavo dalla messa insieme con le due fantesche) entrata in casa vi trovò una lettera del suo Timoteo (il nome non era poetico, ma l’amore passa sopra a tante cose!). Le aveva scritto la notte in procinto di partire improvvisamente per Orbetello.
Scorrazzava nella Maremma una banda brigantesca che scontratasi giorni innanzi e azzuffatasi con la gendarmeria era riuscita a fugarla. Timoteo partiva con la sua compagnia, a rinforzo, per aver ragione dei malfattori.
Leggere, cacciare un grido e cadere svenuta fu tutt’una. E non valsero spruzzi d’acqua sulla faccia, boccette d’aceto sotto le narici, per scuoterla da quel torpore. Chiamato un medico, bisognò discingerla e verecondia impose ch’ io fossi allontanato dallo scarno spettacolo.
Quella sentimentale trentacinquenne possedeva una piccola biblioteca i cui volumi leggeva e rileggeva di continuo: vite di santi, romanzi italiani o tradotti, famosi a quel tempo fra la gente del suo grado e della sua coltura : i Misteri d’ Udolfo della Ratcliff, Teresa e Gianfaldoni, il Ritorno dalla Russia, Adelaide e Comingio, ovvero gli amanti infelici, altri che non rammento, tutti del medesimo conio; di quelli insomma che Napoleone a Sant’Elena definiva « romans d’antichambre »
(e metteva nel mazzo. Dio lo perdoni, anche la Manon Lescaut): finalmente un vecchio libricciattolo, nel quale si descrivevano con crudele minuzia di particolari i castighi sofferti da peccatori impenitenti o da eresiarchi. Ricordo un Leonzio cacciatore, che passando innanzi a un tabernacolo sparò una fucilata contro l’immagine della Vergine, e fu mangiato da serpenti.
Sobrii a quanto pare, perchè il supplizio durò un anno intero.
Nell’ottimo intendimento di contribuire alla mia educazione spirituale, l’Adelaide ogni sera, prima di darmi la buona notte, mi largiva il succo delle sue svariate letture : frammenti agiografici ed episodi romanzeschi, tragedie sacre e drammi profani, spasimi di martiri e disperazioni di innamorati. Io, per dirla col buon Saccenti,
io morivo di voglia di dormire,
con tutto ciò …………………
la sarei stata un secolo a sentire ;
e non di rado me ne andavo a letto con gli occhi gonfi, impressionato dal terrore o dalla pietà di quei casi.
La Margherita non leggeva, perchè nella sua gioconda spensieratezza s’era scordata d’imparare a leggere; ma conferiva anch’essa all’addottrinamento del mio giovine intelletto, e cantando stornelli a perdifiato mi preparava a gustare le fresche ingenuità della poesia popolare. Gli stornelli erano innocui ; non cosi quei racconti sebbene io li ascoltassi con attonito compiacimento, Impia sub dulci meIle venena latent; fra le paurose invenzioni della Ratcliff, Leonzio divorato dai serpenti, Santa Verdiana che arringava le vipere, la omonima Adelaide che spirava fra le braccia dell’adorato Comingio, estasi, suicidi, fantasmi, supplizi, sortilegi ed altre diavolerie rimuginate fra me e me senza tregua, mi ridussi a non dormire più, o, addormentatomi, a svegliarmi in sussulto dopo sogni affannosi: n’ebbi scossi i nervi e confuso il cervello: e perchè deperivo a vista d’occhio, indagatene e conosciutene le cagioni, mia madre, ormai avviata alla guarigione, risolse di pigliarmi con sé.
A tempo! di lì a qualche settimana l’Adelaide parve, per qualche segno, non aver più la testa a posto, la Margherita fu licenziata su due piedi e cacciata intrafinefatta. Le ero affezionato e mi rincrebbe. Domandai: perchè? come mai.? che ha fatto? ma nessuno mi rispose. Soltanto molti anni dopo seppi che la prosperosa contadinotta, indispettita forse del non poter leggere romanzi, ne aveva fatto uno per conto suo : il quale, cominciato con due personaggi, quando lo scacciamento avvenne stava per finire con tre.
A distrarmi dalle orrènde fantasticherie, giovò la stanza, nella quale mia madre abilissima nel ricamo passava parte del pomeriggio al telaio ed io vicino a lei sbrigavo i miei compiti, prima trascurati per colpa di Leonzio e di Gianfaldoni; quell’istesso salotto ove, sulla tavola di marmo rosso delle cave monsummanesi, le invincibili armi napoleoniche debellarono già gli eserciti della Russia e dell’Austria.
Sul parato di carta di Francia erano a vivi colori raffigurate numerose specie di uccelli. Mi divertivo a guardarli, a distinguerli; e il guardarli e il distinguerli alla lunga mi incuriosì: mi venne voglia di sapere come si chiamassero, dove nascessero, come vivessero. Di quella curiosità mio padre si compiacque, mi venne in aiuto con una vecchia ornitologia; ed io un po’ alla volta, con molta diligenza e pazienza, riuscii a determinare degli ammirati volatili le specie ed i generi, a conoscerne la vita e i costumi.
Lontano effetto di quelle ricerche sull’avifauna condotte da fanciullo, o inclinazioni di origine atavica? (in casa mia tutti cacciatori di padre in figlio per parecchie generazioni). Fatto sta che la caccia di ogni forma e maniera: schioppo, rete, penerà, vischio, fu in me per mezzo secolo passione potentissima.
Sui venti anni addirittura manìa; basti che mi fece perfino oratore sacro.
Sicuro : prossima a Monsummano è una vasta tenuta ; smaniavo d’andarvi a caccia dei pispoloni (Anthus arboreus) in settembre ; ma ci voleva il permesso del fattore. Era col fattore in ottimi termini, un giovine prete ambiziosetto, cui piaceva mettersi in mostra e farsi credere di grande ingegno e coltura. In occasione di nozze paesane avevamo lavorato insieme a un sonetto per gli sposi ; io lo scrissi ed egli lo sottoscrisse; pensai conveniente ricorrere a lui. Non m’ ingannai : si sarebbe volentieri adoperato lietissimo di farmi cosa gradita ; se non che…. servizio per servizio, anch’io potevo fargli cosa gradita e toglierlo da un imbarazzo. S’era impegnato con i preti d’un paese vicino, per certa festa da celebrarsi fra un paio di mesi, a recitare il panegirico del santo protettore. Aveva già raccolto le idee ; ma lui organista, lui sagrestano, tra il breviario la messa e il coro, temeva con tante faccende, non aver tempo di stenderlo. Lungo rigirìo di frasi, la cui conclusione fu questa: egli avrebbe aiutato me nella venatoria, io lui nell’oratoria, egli mi avrebbe ottenuto il permesso, io gli avrei fatto il panegirico.
Lì per lì non mi parve vero, ma poi, riflettendoci, mi accorsi che nell’imbarazzo c’ero io. Un panegirico ! non sapevo dove mettere le mani, da che parte rifarmi e oramai indietreggiare non si poteva: non c’erano più di mezzo soltanto gli anthus arborei, ma l’amor proprio e la parola data. Stavo così perplesso, quando eccoti l’amico a crescere il prezzo della mediazione. Aveva incontrato molte difficoltà, fatte molte gite inutilmente, dovrebbe farne ancora molte, perchè senza lungamente insistere non si riusciva a superare quelle difficoltà : perdita di tempo che lo accorava, in quanto che non aveva saputo esimersi da un nuovo impegno: un sermone da recitarsi alle monache d’un altro paese.
Ho detto che la caccia era a quel tempo per me una mania, mi par superfluo l’aggiungere: purché l’aiuto non mi mancasse, purché il permesso venisse farei anche il sermone.
Per fortuna nella villa di mio zio, Rimanevano intatti da oltre un secolo i libri di un antenato che fu parroco : ne scavai il Segneri e lo Zappata, vi feci la conoscenza del Massillon e del Bourdaloue, scartabellai, compulsai, lessi attentamente; e quando, scorso un mese o poco più, il prete ambiziosetto mi porse la carta che mi dava facoltà di stendere le reti nel prato di Mideo, io gli consegnai a mia volta il panegirico del Santo e il Sermone su la modestia per le monache di Borgo a Buggiano.
E anch’io in un’afosa giornata di luglio, anch’io andai alla festa.
Il panegirico, egregiamente con bella voce detto dal pergamo, strapiacque. I notabili, usciti dalla chiesa e passeggiando su e giù per l’unica strada del villaggio per far l’ora dei fuochi artificiali, sebbene così incompetenti in materia di sacra eloquenza come di ortografia e scienze affini, non si stancavano di levare a cielo l’ingegno e la dottrina dell’oratore novizio. Quali speranze da quegli esordi! L’esattore comunale era addirittura entusiasta: sfringuellava: «.magnifico, magnifico » e venutomi incontro, mi abbordò con un: « dica lei, dica lei, se non è veramente magnifico ».
Io che, quantunque sotto mentite spoglie, mi sentivo trattenuto dai pudori della paternità — sì, sì, — risposi — ma non bisogna poi esagerare…. — L’esattore mi dette un’occhiata a stracciasacco che volle significare e significò: ecco l’invidia!
( Ferdinando Martini, Fra tonache e gonnelle, tratto da “Confessioni e ricordi (Firenze granducale), R.Bemporad e Figlio, 1922 )