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Ferdinando Martini, Rossini, mio maestro di musica

Da Paolorossi

Ma dove lascio il Rossini che fu mio maestro di musica? Non ridete che c'è poco da ridere: fu mio maestro di musica.

Veniva in casa spesso, tra il 1846 e il 1847. S'era messo in capo di scrivere insieme con mio padre (ho documenti che lo attestano) un commedia: Il banchiere e il giornalista, e di porre in scena due personaggi in Toscana notissimi. Se ne andò poi e la commedia rimase alle prime scene.

Lo ritrovai quattro o cinque anni dopo alle mattinate di Monsignor Ferdinando Minucci arcivescovo di Firenze e lontano parente della mia famiglia. Monsignore era della musica appassionatissimo e nell'arcivescovado capitavano quanti rinomati tenori e baritoni passavano via via da Firenze. La domenica da mezzogiorno al tocco si cantava: ci sentii l'Ivanoff, ci sentii un terzetto (se non sbaglio dell' Italiana in Algeri) cantato dal donzelli che aveva più di sessanta anni e una voce freschissima, da Monsignore e dal rossini stesso, il quale per giunta accompagnava al pianoforte.

Mi ricordo che una di quelle domeniche, proprio sul più bello, entrò ratto e affannato un canonico Landi e ad alta voce, interrompendo non so quale duetto buffo, annunziò la morte di Silvio Pellico. Monsignore si alzò e prese ad enumerare con accento di grave rammarico i meriti dell'estinto. Il panegirico andava per le lunghe e il Rossini che non s'era mosso dal pianoforte, forse seccato, cominciò ad improvvisare lì per lì una marcia funebre. Non so se fosse una bella cosa; so che tutti si affollarono intorno al maestro, che l'arcivescovo segnò le battute con un dondolio della testa e del povero Pellico nessuno ne parlò più.

Poco innanzi quel tempo mi menarono a far visita alla signora Rossini, Olimpia Pellisier, seconda moglie del maestri, di meravigliosa bellezza trent'anni prima, quando il Vernet la ritrasse nella Giuditta del Museo di Versailles.

C'erano il Maestro, tre o quattro amici suoi e un cane barbone; un cane intignato, schifoso, pestilenziale, delizia e cura della padrona di casa; gli avrebbe sacrificato la fama del marito senza neanche pensarci. Quella bestiaccia puzzolente e strinata si strascicava dai ginocchi di questo ai ginocchi di quello; e questi e quegli con sguardi saettanti l'odio e invocanti l'accalappiatore municipale, ma con garbo carezzevole affinché la signora non si adirasse, se lo levavano d'attorno passandoselo l'un l'altro, per modo che la pena dell'averla addosso fosse, così com'era profonda, anche breve e comune.

Alla fine la fetida carcassa arrivò fino a me; ero accanto alla signora, non potevo naturalmente dirle: se lo pigli lei. Non ebbi il coraggio di rimetterlo in terra affinché rifacesse il giro; mi si accoccolò in grembo sbadigliando per la beatitudine dell'insperato riposo e ci s'addormentò! Chi può descrivere la tenerezza delle occhiate amorose che mi lanciò la signora Rossini?

[...]

" Tu es dois faire un musicien, " disse volta al Maestro che non rispose; ma lei tre o quattro volte ripetè lo stesso invito con la frase medesima, sempre interrompendo i discorsi ch'ei faceva con alcuno degli ospiti. Per chetarla (mi accorsi benissimo che di sentirmi cantare il Rossini non aveva nessun desiderio) si alzò e mi chiamò al pianoforte. Una voce intima mi diceva che non mi sarei fatto onore, nondimeno fui lietissimo di quella chiamata che mi liberava dal miasma, il quale se fosse durato mi avrebbe ucciso nel fiore dell'età.

Consegnai alla signora il dolce pegno; lei se lo riprese, se lo accarezzò, gli chiese scusa di averlo svegliato, e forse si rimproverò in cuor suo di no aver preveduto che per creare l'artista bisognava disturbare il barbone.

Rossini canticchiò un motivo, una melopea, della quale non mi ricordo, e se anche me ne ricordassi sarebbe tutt'una. Mi ricordo bensì le parole:

Rossini seduto indicava le note sul pianoforte, io dietro, dietro. Mi ci provai più volte; sentivo (per esser chiari: avevo il sentimento) che non s'andava bene e mi vergognavo e maledicevo il cane, cagione dell'infausta prova; guai se lo avessi avuto fra le mani o fra le ginocchia in quel punto. Ogni tanto il maestro smetteva di toccare i tasti e mi guardava di sbieco stringendo le labbra: alla fine s'impazientì: do, do, do, e picchiava sul tasto e pareva volesse dire: Ci vuol tanto? Proviamo più basso; e io una nota diversa, anzi una nota, credo, non inventata da Guido Monaco. Proviamo più alto: mi uscì di gola tale un grido squarciato, come di pappagallo in furia, che il Rossini si turò con le mani gli orecchi, e alzandosi:

" Tusatt (ragazzo, in bolognese) ", mi disse " spero che tu divenga un brav'uomo! ma una nota giusta non l'azzeccherai se tu campassi cento anni. "

Grande contrassegno del genio la divinazione!

( Ferdinando Martini, Confessioni e ricordi (Firenze granducale), R.Bemporad & figlio, 1922 )

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