Omeopatia
Omeopatia come medicina di prima scelta, ricerca e proving, formazione, pratica clinica: ne abbiamo discusso con il neo presidente della LMHI, Renzo Galassi
Per la prima volta la Liga Medicorum Homoeopathica Internationalis (LMHI), l’associazione che riunisce gli omeopati di 76 Paesi del mondo, è guidata da un italiano: è Renzo Galassi, omeopata marchigiano, eletto in occasione dell’ultimo congresso a Quito, in Ecuador.
Dottor Galassi, quali sono gli impegni prioritari che ha assunto come presidente della LMHI?
Appena eletto ho voluto convocare i rappresentanti nazionali per sapere da loro che cosa si aspettassero dalla Liga, con l’obiettivo di stilare, partendo dalle istanze della periferia, un programma di attività per il prossimo triennio.
L’ultimo congresso è stata l’occasione anche per rinnovare il Comitato esecutivo, in cui sono entrate persone nuove che ora devono amalgamarsi per lavorare al meglio. Sono omeopati con grandi capacità professionali che seguiranno e coordineranno i working groups su ricerca, formazione, farmacia, odontoiatria, pubbliche relazioni e proving, un progetto al quale ho iniziato a dedicarmi al congresso di Los Angeles (2010). Questo lavoro, svolto online a costo zero, consentirà di collegare le realtà omeopatiche di tutto il mondo, accogliendo il contributo che ciascuno è in grado di dare. Un’altra priorità è mettere ordine nella gran mole di documenti e decisioni degli ultimi anni per fare chiarezza su temi di rilievo come l’organizzazione del nostro sistema associativo, le norme di adesione dei membri, l'accreditamento delle scuole ecc.
Inoltre ho dato mandato al comitato per le pubbliche relazioni e a quello per la ricerca di elaborare un documento comune di risposta agli attacchi contro l’omeopatia dei cosiddetti “skeptics”, attivi in vario modo nei diversi paesi. Il documento sarà distribuito fra qualche mese.
Il congresso di Quito è stato un confronto fra le realtà nazionali dell’omeopatia. Che cosa è emerso a livello internazionale? Esiste, ad esempio, una linea di demarcazione fra omeopatia europea ed extraeuropea?
Sono stati presentati lavori interessanti in ogni settore che saranno sintetizzati nel prossimo numero della Liga Letter, la pubblicazione cartacea che viene diffusa a cadenza annuale in autunno. A questa si affianca un bollettino semestrale, Liga News, inviato online, di cui intendo aumentare la frequenza, anche per migliorare il contatto diretto con i membri dell’associazione.
L’idea, come hanno chiesto gli stessi associati, è di inserire in ogni numero articoli di approfondimento dedicati non solo alla politica omeopatica ma anche a temi clinici e alla ricerca. La Liga è il rappresentante culturale dell’omeopatia e vorrei che riassumesse appieno questo ruolo.
Molte idee innovative sono arrivate dal Sud America ed è emersa la necessità di migliorare l’aggregazione delle diverse macroregioni. Per questo, nella sede stessa del congresso, ho convocato un incontro fra i rappresentati latinoamericani invitandoli a creare un subcomitato della Liga che si occupi espressamente di politica locale. La mia proposta è stata accettata con entusiasmo e i colleghi ci stanno già lavorando.
L’omeopatia indiana resta una realtà molto vivace, radicata nel territorio e con forti legami istituzionali. Il CCRH (Central Council of Research in Homeopathy) fa parte del ministero della Salute, dove esiste anche una sezione per le medicine tradizionali, l’AYUSH, mentre le cliniche omeopatiche sono diffuse in tutto il paese e accolgono migliaia di pazienti, anche oncologici.
Anche in molti paesi latinoamericani esiste un buon collegamento con le istituzioni e questa è forse una delle principali differenze con l’Europa, dove il rapporto della medicina omeopatica con le istituzioni non può dirsi altrettanto forte e si deve lottare ancora molto sul piano politico.
Milioni di italiani fanno ricorso all’omeopatia. Quali esigenze pone oggi il paziente che si rivolge all’omeopata e come strutturare la propria attività per garantire al cittadino un servizio, oltre che una prestazione professionale?
Credo che il medico omeopata debba esercitare la professione a tempo pieno. Personalmente ho scelto questa strada dedicando ad essa il 100% delle mie forze e dando sempre al paziente un servizio simile a quello offerto dal medico di famiglia. L’omeopatia vera, quindi, richiede un impegno full-time, fondamentale per seguire le evoluzioni del paziente e dei suoi sintomi, per capire ad esempio se sta andando incontro a una malattia acuta o se si tratta solo di un’evoluzione benefica della cura. Quando si pratica l’omeopatia con vocazione e, come diceva Proceso Ortega “nella mistica della professione”, il paziente non può che trarne vantaggio.
I pazienti sono cambiati in questi anni?
Direi di no. I pazienti vengono con problematiche o richieste simili a quelle di anni fa. In genere arrivano nel mio studio grazie al passaparola, perché un amico o un familiare ha tratto beneficio dalle cure omeopatiche. Vedo molti bambini (circa il 40%), moltissime donne, mentre gli uomini, che in materia di salute tendono a trascurarsi, vengono principalmente per problemi seri che hanno cercato inutilmente di risolvere con l’approccio allopatico. Certo, ci sono contatti anche di persone curiose, ma sono per lo più fugaci. Lo zoccolo duro è composto da pazienti che hanno provato l’omeopatia, hanno visto che funziona e vogliono andare avanti. Con queste persone, che in genere acquisiscono la cultura omeopatica e un diverso approccio alla salute s’instaura un rapporto molto positivo.
Vuol dire che vede pazienti per molti anni?
Non necessariamente, dipende dal motivo per il quale si richiede una visita. Se parliamo, ad esempio, di bambini che vengono per evitare le classiche malattie invernali, li seguo per un certo periodo e quando hanno 8-9 anni di età, prospetto ai genitori la possibilità di continuare con l’omeopatia oppure di sospendere il trattamento e tornare all’insorgenza di eventuali, nuovi disturbi. Chi ha un problema cronico viene seguito finché il suo disturbo non è risolto.
A quel punto tendo a lasciarli, avendo molti pazienti e lunghe liste di attesa. La scelta naturalmente spetta al singolo paziente. Non mi piace, tuttavia, far passare l’idea che ci si debba curare con l’omeopatia per tutta la vita, anche se in via teorica è corretto. Infatti, la cura omeopatica profonda, quella che Hahnemann chiamava miasmatica, deve essere portata avanti per molti anni.
Omeopatia e ricerca scientifica: quali sono le sfide? È un terreno che può dare delle risposte e arricchire la pratica medica omeopatica?
Un gruppo della Liga si occupa di ricerca ed è ora coordinato, terminato il mandato del belga M. Van Wassenhoven, dall’indiano Raj K. Manchanda, direttore del CCHR, una persona dedicata e competente che saprà amalgamare le diverse facce della ricerca omeopatica. Nel settore dei proving è stata creata una segreteria di cui è responsabile l’omeopata sudafricano Ashley Ross, che segue questo filone della ricerca da tempo. L’aspetto interessante è che esperti nelle sperimentazioni di rimedi nei vari paesi si siano associati per definire le Linee guida in questa materia, in collaborazione con l’European Committee of Homeopathy (ECH) e il gruppo statunitense dei proving, per poi realizzare uno o più proving multicentrici. Lo trovo un progetto di estremo interesse, dato che verte sulla vera ricerca per l'omeopatia, quella da cui si traggono i mezzi che aiutano a curare le persone. Le altre tipologie di studi (osservazionali, sperimentali ecc.) molto interessanti, servono più per dimostrare al mondo che l’omeopatia ha diritto di esistere che per gli omeopati. Vivendo quotidianamente la realtà dell’omeopatia, sappiamo che funziona indipendentemente delle convalide delle indagini di laboratorio.
Non solo in Italia ma in Europa sembra esserci un minore interesse delle nuove generazioni verso la medicina complementare e l’omeopatia. Che cosa è cambiato negli ultimi anni? Perché a una forte crescita dei cittadini che scelgono queste terapie, non corrisponde un’analoga crescita dell’interesse dei giovani medici?
Il fenomeno esiste ma in realtà riguarda tutta la medicina. Da quando è stato adottato il numero chiuso per questa facoltà, i medici sono diminuiti e hanno tutti un lavoro. La specializzazione è retribuita e spesso, all’inizio del suo percorso professionale, il neo laureato non ha l’idea di dedicarsi ad altro. In altri paesi la situazione è differente. Non dimenticherò mai l’entusiasmo e la vivacità intellettuale con cui gli studenti indiani, che entrano nei college omeopatici alla fine della scuola superiore, affrontano l’apprendimento dell’omeopatia. Al congresso di Delhi nel 2011 ho sentito giovani di 20-21 anni fare domande molto pertinenti di clinica o Materia Medica e sono certo che diventeranno dei bravi medici, saranno il futuro di questa medicina. Per tornare alla domanda, credo sia principalmente una questione di numeri, dato che in altri paesi non mancano i giovani che decidono di studiare l’omeopatia.
Contenuti, monte ore, metodologia didattica, tirocinio, riconoscimento del titolo di studio: quali sono le criticità del processo formativo in omeopatia?
La formazione è il fulcro dell’attività omeopatica. Da unicista classico ritengo che l’omeopatia si debba insegnare partendo dall’Organon di Hahnemann, il testo base della dottrina omeopatica, o meglio dalla filosofia pre-hahnemanniana per poi passare alla clinica. Deve cioè avvenire nella mente dello studente quel cambio di criterio che lo aiuti a comprendere il diverso percorso che si segue nella percezione della sofferenza del malato, fino alla scelta del medicamento più appropriato.
Purtroppo il processo formativo omeopatico non segue sempre questi criteri ed è portato avanti da istituzioni non sufficientemente competenti. Altre volte, invece, nuove idee e dottrine non sperimentate a sufficienza nel tempo stravolgono i principi basilari di questa medicina. Credo invece che nell’insegnamento si debba restare fermamente legati alle radici classiche dell’omeopatia e valutare in seconda battuta i nuovi approcci, inserendoli eventualmente come arricchimento per il medico più esperto e non nella formazione di base. Una semplice formazione hahnemanniana consente, di fatto, di curare ogni tipo di paziente ed è proprio questa sua efficacia che ha mantenuto in vita questo sistema terapeutico per oltre 2 secoli, nonostante gli attacchi ripetuti che ha subito.
Qual è l’orientamento della LMHI in ambito formativo?
Qualche anno fa sono state stilate le Linee guida per l’insegnamento. Il programma prevede un primo livello di “esperto in omeopatia” con un monte ore di 550-600 ore in 3 anni di corso con lezioni frontali e pratica clinica e un secondo livello di specialista. Quest’ultimo richiede un percorso di formazione analogo a quello delle specialità in medicina ufficiale, cioè un’attività clinica e lavorativa full-time con questa disciplina.
Buona formazione, buoni omeopati, buoni risultati con i pazienti?
La straordinarietà del medicamento omeopatico sta nel fatto che crea sempre qualcosa nell’organismo. Non necessariamente si tratta di cura, talvolta è un semplice movimento di sintomi. Una buona formazione di base consente di percepire se la direzione è verso la guarigione o si tratta di palliazione o di un cambiamento nei sintomi.
Abbiamo il dovere etico di essere professionali, di offrire una terapia di qualità, ancor più in questo periodo storico difficile. Le istituzioni ci guardano, nella prospettiva di regolamentare il settore, mentre i pazienti che in una fase di crisi scelgono di pagare di tasca propria la visita omeopatica hanno il diritto al miglior trattamento possibile, efficace e duraturo. In assenza di regole, purtroppo, ci sono anche persone che praticano l’omeopatia senza competenze specifiche o per seguire una moda del momento. Non è sempre così, ma resto convinto che chi vuole fare l’omeopata debba farlo con scienza e coscienza. Non è qualcosa che si prova per vedere se funziona, perché c’è sempre il rischio di danneggiare il paziente.
Che cosa vuol dire per un omeopata unicista “medicina integrata”? Come dovrebbe avvenire, sempre che sia auspicabile, l’integrazione con la medicina ufficiale?
Non tutti siamo Hahnemann o Von Lippe, che con la loro bravura riuscivano a curare tutto o quasi; ognuno di noi può avere dei limiti e non riuscire a risolvere alcune situazioni patologiche in alcuni pazienti. In questi casi ritengo opportuno integrare il nostro lavoro con quello di bravi colleghi, di specialisti allopatici, ginecologi, cardiologi ecc. Questa è la mia visione di integrazione che pratico quotidianamente.
Una delle lezioni più belle di Ortega in Messico riguardava l’incurabilità in omeopatia; ecco, in questi casi è giusto chiedere il supporto di altri colleghi perché mai si può abbandonare il paziente a se stesso.
Non credo invece che si possa essere allopata e omeopata ad alti livelli allo stesso tempo e che l’integrazione possa avvenire nella stessa figura medica. Conosco la difficoltà di studiare l’omeopatia ad alti livelli professionali e so per esperienza che dedicandosi con amore a questo studio, poi non si ha il tempo di studiare in modo serio o specialistico anche la medicina allopatica, quindi si offrirebbe al paziente un servizio di scarsa qualità in uno dei due aspetti. La medicina integrata deve essere di altissimo livello e si può praticare quando sia l’omeopata sia lo specialista allopatico, o di altra disciplina complementare, sono altamente professionali. L’integrazione può attuarsi anche nelle strutture sanitarie pubbliche e in ospedale. Se si tengono fuori gli interessi commerciali, i medici, omeopatici e allopatici, possono convivere molto bene e condividere esperienze. L’integrazione fra omeopatia e medicina allopatica è dunque possibile, anzi penso che possa essere il futuro nella cura dei pazienti, anche se continuo a ritenere l’omeopatia la migliore medicina di prima scelta.
Chi è Renzo Galassi
Nato a Macerata, Renzo Galassi si laurea in medicina con lode presso l’università La Sapienza di Roma. Dopo la laurea ha seguito master con il prof. Antonio Negro presso la “Libera Università Internazionale di Medicina Omeopatica”, seminari con maestri dell’omeopatia come T.P.Paschero, P.S.Ortega e E. Candegabe. Dal 1989 al 2005 ha partecipato annualmente all’attività ambulatoriale di P. Ortega in Messico.
È membro della LMHI www.lmhi.net dal 1985; nel 2007 è stato nominato primo segretario generale, nel 2010 primo vice presidente ed è diventato presidente dell’associazione nel 2013. Svolge attività di formazione dal 1989 presso l’Accademia di medicina omeopatica hahnemanniana marchigiana e altre strutture.
Ha condotto un’intensa attività congressuale ed editoriale; fra i suoi lavori si segnala il libro The Mental Symptoms in Homeopathy, scritto con Proceso S. Ortega. Esercita la professione di medico omeopata a Macerata e Ancona.