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FERNANDO BANDINI | Un ricordo

Creato il 31 marzo 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

bannerbandinidi Marco Cavalli

 

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Fernando Bandini è morto a Vicenza il 25 dicembre 2013. Aveva ottantadue anni. Peccato che quel giorno non ci sia stata la neve: lui l’avrebbe gradita. Ne cade parecchia nelle sue poesie, e poi è congeniale al carattere invernale, rupestre, dell’autore. Non che Bandini fosse incapace di socievolezza, ma stringere rapporti con un poeta, e personali per giunta, è un’impresa proibitiva. I poeti, specie se di nazionalità italiana, sono dei geroglifici: anche quando ti stanno di fronte riesci a vederne solo un profilo, ed è facile equivocare questo limite umano troppo umano, prenderlo per una forma di pudore, di discrezione. Spesso un profilo sommario è tutto quello che un poeta può offrire di se stesso, poesia a parte, dove l’evasività diventa una figura retorica e ogni leva la sezione di un piano inclinato.

Nessuno come Bandini avrebbe avuto bisogno in vita di essere focalizzato nelle sue ambivalenze, nei suoi cul-de-sac caratteriali che poi, a ben guardare, sono la vasca di decantazione della sua poesia. A voler prendere un contrasto a campione, sceglierei quello tra l’ideologia politica di Bandini e il suo temperamento elegiaco. Iscritto al partito socialista in anni in cui il socialismo italiano veniva associato all’esempio di Nenni e non ancora a quello di Craxi, Bandini ha svolto una militanza attiva e operosa. Ma il suo socialismo, anche nelle stagioni di partecipazione più fervida, è stato una specie di pellegrinaggio penitenziale, una scarpa ortopedica ch’egli si forzava a indossare nonostante la predisposizione a camminare scalzo. Il socialismo, si sa, implica una fiducia nelle possibilità di riformare il mondo, di cambiarlo in meglio, ed esige da chi lo professa un ottimismo cieco, studiatamente dissennato, nei confronti dell’avvenire. Un atteggiamento che non era nelle corde di Bandini e che urtava sia contro la sua intelligenza delle cose, sia contro un naturale scetticismo.

Culturalmente, Bandini era legato al passato. Si identificava nell’Italia contadina, ma non quella astratta e idealizzata del marxismo alla Pasolini. Il punto di riferimento di Bandini era la civiltà rurale che legge il tempo sul volo degli uccelli, legata al ciclo delle stagioni, e però anche ottusa, servile, democristiana. Un coacervo di paganesimo georgico e di cattolicesimo della Controriforma, che deve la propria immobilità e pesantezza alla mentalità religiosa, e il fascino e il dinamismo al cuore antico. Questa natura molto veneta, vecchia nei campanili e moderna nel vomere d’aratro, riempie le poesie di Bandini, raffigurata talvolta con nostalgia, sempre con affetto, forse per sovrapposizione all’infanzia del poeta. Non sono descrizioni plastiche, benché Bandini ne abbia date di mirabili. Nelle sue poesie il paesaggio è soprattutto linguistico e va cercato in una certa musicalità, in un certo ritmo riconoscibili a orecchio, effetto di un intarsio delicato di materiali vecchi e nuovi. L’infanzia in Bandini significa dialetto e latino, cioè il sostrato dell’Italiano. Solo che Bandini sente e usa il dialetto come se fosse latino, una lingua morta, di tradizione illustre, evocativa di un mondo ormai scomparso e fiabesco, e il latino come se fosse un dialetto, la cui sonorità è significativa quasi più per se stessa che per ciò che designa.

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La poetica di Bandini non ha niente di particolarmente originale: non in Italia, dove più naturalistico è il tema, più accademica e raffinata è l’esecuzione. Basti pensare ad Andrea Zanzotto, le cui “egloghe” sono sempre a rischio di stancare e diventare inavvicinabili per eccesso di rifinitura e sprezzatura stilistica. Colto e sofisticato quanto Zanzotto, Bandini gli era superiore nella poesia. I suoi versi possiedono quel timbro intermedio e cordiale che parla al lettore di tutte le età: una dizione semplice senza affettazione di semplicità, capace di elementarizzarsi e pertanto di scavalcare la trappola del virtuosismo.

Umanamente, Bandini era afflitto da una cronica carenza di apprezzamento. Con il moralismo intransigente e vendicativo dei bambini ipersensibili, voleva che l’accuratezza e la fedeltà alla poesia da lui dimostrate fossero intese e applaudite. Accettava la solitudine del poeta che, infrangendo qualcosa di completamente abituale, lo rende evidente, ma non capiva che, quando questo gesto di infrangere diventa abitudinario, nessuno ci fa più caso. E noi viviamo in un paese di poeti autoproclamatisi tali, dove non si fa che commettere infrazioni, il più delle volte, a differenza di Bandini, per nascondere una totale ignoranza delle regole.

Abbiamo avuto molte discussioni in proposito, in passato. Ne ricordo una nella sua casa di contra’ Carpagnon, in cui a un certo momento, esasperato dalla ricorrente geremiade dell’artista incompreso (la gente non capisce, questa città è cieca, ho scritto al vento ecc.) gli dissi in modo alquanto brusco che trovavo sconcertante che un uomo della sua levatura intellettuale si aspettasse una contropartita in comprensione e generosità da parte dei suoi concittadini, come se le cose che aveva scritto le avesse scritte per loro e pensasse non solo di avergli arrecato un beneficio, ma che quest’ultimo consistesse nel dirgli grazie. Gli rammentai che quando è monca della generosità, l’intelligenza è destinata a patire la sindrome dell’arto fantasma, e di conseguenza a far patire il prossimo, perché poi le fisime di ciascuno diventano quelle di chi le subisce per amor nostro. Lui concordava, ma con la testa; con tutto il resto si sentiva defraudato, anche da me, cui rimproverava, senza invero dirmelo in faccia, di perdere tempo dietro ai libri di Aldo Busi invece di scrivere qualcosa sui suoi. Ogni tanto mi fissava scuotendo la testa, come un maestro che veda un alunno dotato buttarsi via per colpa della dipendenza da una qualche droga sintetica.

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In un’altra occasione ritornammo sull’argomento e gli dissi che non c’era, da parte mia, alcuna intenzione di contestarlo, che ritenevo la sua poesia intoccabile da quello che a me pareva un limite dell’uomo più che del poeta. “Come per Rimbaud” postillò lui, e aggiunse che Rimbaud (da lui tradotto) era stato un accentratore insopportabile, oltre che un trafficante d’armi, e tuttavia ciò non faceva schermo alla luce purissima della sua poesia. Insomma, Bandini sembrava scusarsi di non essere come, secondo lui, avrei voluto che fosse, mentre io volevo semplicemente riportarlo a un comune principio di realtà e rammentargli, semmai, che il poeta è padrone solo a casa sua. Altrove (parola che a Bandini piaceva molto, tanto da entrare nel titolo della sua ultima raccolta, Oltre i cancelli e altrove) valgono le condizioni condivise dalla maggioranza, non un magistero estetico, supremo solo per chi lo sa vedere.

L’ultima volta che ci siamo parlati è stato alla presentazione pubblica del vocabolario del pavano. Vedendomi seduto in prima fila – eravamo quattro gatti al piano nobile di palazzo Cordellina -, mi rivolse un sorriso fanciullesco, uno di quei sorrisi senza riserve interne come forse ne avrà rivolti a qualche donna, a me mai, prima di allora. Un sorriso di addio preventivo, ricordo di aver pensato. Se Bandini mi sorride così, deve essere perché sente che non gli rimane più tempo per rimandare alla prossima la generosità.

Il suo intervento fu tra i più ispirati. Recitò a memoria un sonetto del Magagnò che commosse la ragazza che mi sedeva accanto (mai vista prima) e si commosse a sua volta ricordando Marisa Milani, braccio destro di Gianfranco Folena,  il pioniere degli studi sul pavano in Italia. Alla fine andai a salutarlo e a congratularmi, sebbene non ne avessi voglia. Ecco una delle autoviolenze che Bandini si risparmiava giudiziosamente; ma io volevo premiare quel sorriso stupefacente che in un istante aveva cancellato dalla faccia del poeta la maschera di accidiosa sofferenza che gli conoscevo. Lui mi accolse con un “Sono ancora io!”, alludendo, credo, alla sedia a rotelle cui era costretto a causa dell’angioma. Chissà, forse temeva che gli dicessi qualcosa di maldestro sul suo stato di salute. Pensai a quante volte ci eravamo visti e mai che gli avessi chiesto “Come stai?”, perché non si chiede una cosa così a un poeta o a uno scrittore, e magari lui si sarà persino offeso e mi avrà serbato rancore senza mai farmelo capire, credendo con questo di punire me anziché sé. Comunque, decisi di prenderlo alla lettera e chinandomi per abbracciarlo gli dissi “Anche di più, mi pare”. Lo tenni stretto per qualche secondo, volevo portarmi via un po’ del suo odore. Lui ruppe in lacrime sopra la mia spalla. Negli ultimi tempi, reso vulnerabile dalla malattia, piangeva spesso: scrosci secchi, privi di lacrime, fulminei e brevissimi come temporali estivi. Mi ritrassi, e davvero non potei trattenermi dal bisbigliargli “Sei sempre il solito”, sperando che cogliesse il tono più che il senso della frase. Deve essere andata così, o avrò parlato a voce troppo bassa, non so. Sta di fatto che Bandini mi sorrise – stavolta, il suo consueto sorriso un po’ commiserante – e mi disse “Se n’è andato anche quello”.

Ci siamo fraintesi fino all’ultimo.

Marco Cavalli

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AMEDIT MAGAZINE, n. 18 – Marzo 2014. Cover “Senex” by Iano

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 18 – Marzo 2014

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