Fernando Lena, Quaderni dell’Ussero, Collezione Letteraria 2014
In una nota introduttiva al poemetto “La quiete dei respiri fondati”, contenuto in questa piccola antologia, Fernando Lena mette le mani avanti, chiarendo che il poemetto è stato scritto in un reparto del manicomio criminale di Anversa. E così Valeria Serofilli in una nota: “Il nostro autore chiede alla poesia quello che sa fare e quello che deve fare: osservare ciò che l’uomo compie, gli abissi e i cieli stellati. Osservare non solo per registrare ma anche per riflettere”.
Il libro, dunque, è costituito da una successione di ritratti, persone realmente incontrate e immerse nell’atmosfera di un microcosmo fatto di pochi oggetti e delle stesse ossessioni.
Ciò che ne consegue è un vocabolario scarno, tra dolore, distacco, immersione e rievocazione, nella forma di una cronaca spesso al presente, come se l’io, improvvisamente si fosse catapultato in un tempo in cui, malgrado il male, l’albero si è dovuto irrobustire e ha messo radici.
Non so in quale film si diceva una frase sconvolgente, pericolosa ma probabilmente vera: “beate le ferite dell’infanzia”. E cioè, allorché il fato o qualche dio benevole o distratto, ci abbiano dato la possibilità di tracciare un altro pezzo del nostro cammino, ci si pone la questione se quelle ferite possano diventare doni, possibilità, responsabilità di salvezza per noi e per gli altri, o grumi di rabbia non risolti, occasione future per il male.
Così, mi sembra, il senso di questo racconto a brani di Fernando Lena sia da cercare nella soluzione di una domanda interiore: ha senso il dolore? a chi è utile – se è utile – aver sofferto?
La risposta sembra essere appartenere, piuttosto, a una non scelta, a uno sguardo disilluso:
quanti dei vostri nomi
per saziare l’urlo della libertà…
così vi vedo: già morti
mentre lungo i viali
andate in cerca
di uno sguardo
fedeli al mostro che vi divora…
“spesso ci provo
a rovistare
nel vostro dolore
ma non trovo un senso
a parte un inferno
scottante come un lager”
è troppo gelido il verbo
anche per un cristo crocifisso.
Il dolore, dunque, non risolve nulla, non serve a niente, pretende l’obolo della dizione, “il verbo gelido”: unica occasione di nominazione dell’innominabile.
A volte s’insinua il dubbio che, ciò che è accaduto abbia macchiato per sempre la natura virginale dell’essere giungendo persino alle soglie di un tempo ancora a venire e di un tempo che si è presentato, già guasto, fin dall’inizio:
- Ora sappiamo da questa rivelazione
affiorata nel piccolo arbitrio
della nostra preghiera
che hanno solo raccolto il sangue rappreso
di una delle tante inutili guerre
i nostri vecchi -
Sebastiano Aglieco